Qui i giocatori di The Miracle lasciano imprese, poesie, narrare eventi e grandi avventure avvenute e in svolgimento su Ardania. Linguaggio strettamente ruolistico.
Selvarya smontò da cavallo, legando le redini al recinto che circondava la piccola casa nei pressi di Seliand. Dal camino si levava come sempre del fumo. Era certa di trovare suo zio a lavorare in fucina piuttosto che ad oziare comodamente seduto.
“Come stai Aegil!?” esclamò spalancando la porta del piccolo laboratorio nel quale era collocata la forgia.
Al vecchio per poco non prese un accidente, spaventato da questa improvvisa irruzione. Era da qualche tempo ormai che sua nipote Selvarya aveva lasciato la bottega per recarsi ad Amon ed Aegil non era più abituato ad averla intorno, lei e la sua esuberanza!
“Hai forse intenzione di farmi morire di crepacuore?” tuonò il vecchio, guardando accigliato la giovane. Selvarya era avvezza ai modi burberi dello zio e non si scompose minimamente. “Morire tu? Figuriamoci, lo sai che gli Dei non ti vogliono, sei troppo scontroso!” disse la ragazzina. All’unisono esplosero entrambi in una fragorosa risata e Selvarya si gettò tra le braccia di Aegil. Per la prima volta dopo tanto tempo si sentiva nuovamente a casa…
Selvarya si fermò a cena lì quella sera, e davanti ad un piatto caldo di minestra ebbe modo di parlare apertamente con lo zio:
“Allora piccola mia, come procede la tua vita lontano da qui?”
“Bene” disse, mentre teneva lo sguardo fisso sul suo piatto e lentamente portava alla bocca una cucchiaiata di brodo.
“Selvarya, guardami. Mi sono preso cura di te da sempre e ti conosco. Se reagisci così di certo le cose non vanno bene come dici. Dov’è il tuo solito fuoco, la tua passione?”
“Non l’ho trovato Zio!” sbottò la giovane. “Non ho sentito il calore di Aengus tra le fredde mure e le fiamme della sua forgia mi lambivano a malapena, erano distanti. Com’è possibile?”
Aegil sospirò ed un triste sorriso velò il suo volto. “Sapevo che questo momento sarebbe arrivato, prima o poi… In fondo, a parte per gli occhi che sono quelli di tua madre, sei la sua copia esatta.”
“Che vuol dire Aegil?” chiese la giovane, guardando con aria interrogativa lo zio.
“Tuo padre, Selvarya. Sei tale ed uguale a lui, a Brom.”
Per la prima volta in molti anni Selvarya si rese conto che non sapeva praticamente nulla di suo padre. Da quando i suoi genitori erano morti servendo Amon e lei, praticamente neonata, era stata affidata a suo zio, era la seconda o terza volta che Aegil menzionava Brom. Forse perché suo zio era il fratello di sua madre, o per qualche motivo che Selvarya ignorava, Aegil non aveva mai parlato alla giovane di suo padre né lei si era mai preoccupata di chiedere.
“Tu hai preso il nome della famiglia che io e tua madre portiamo, Volken. E’ una delle poche cose che non hai ereditato da tuo padre. Brom era diverso da noi e tu sei molto più simile a lui di quanto mi piaccia ammettere.” continuò il vecchio. “Vedi, tuo padre abbandonò la sua casa, la sua terra e le sue tradizioni per amore di tua madre e si trasferì con lei ad Amon. Ma nel cuore di Brom, fino al momento della sua morte, ha sempre continuato ad ardere la fiamma di Aengus e nel suo sangue a ribollire il fuoco che contraddistingue la sua gente.”
Selvarya osservò ancora più perplessa lo zio. “Cosa intendi Aegil? Chi era mio padre?” chiese la giovane con insistenza.
Aegil si alzò, dirigendosi verso la cassettiera posta all’angolo della stanza. Aprendola ne estrasse un piccolo involto, che porse a sua nipote. Dal panno Selvarya tirò fuori un ciondolo ornato con i denti di un grande animale, probabilmente un orso. La giovane alzò lo sguardo, dirigendolo verso lo zio, che rispose alla giovane ancor prima che questa potesse porgergli la domanda:
“Tuo padre era un uomo del Nord, la cui famiglia era fedele ad uno dei Clan più importanti da quelle parti, i Valdar. Brom compì un enorme sacrificio per amore di tua madre ed il risultato di quella difficile scelta, beh, sei tu!” sorrise il vecchio. “Evidentemente il tuo attaccamento al Grande Fabbro comincia a risentire della lontananza dalla sua dimora. Credo che sia ora che tu diriga il tuo sguardo più a nord.”
“Quindi ho sangue nordico nelle mie vene… Mio padre… La dimora di Aengus…” Un turbinio di pensieri prese a vorticare nella mente di Selvarya, sconvolta da rivelazioni che non si sarebbe mai aspettata di ricevere. Quella notte, anche se molto stanca, Selvarya non riuscì a chiudere occhio.
Il mattino successivo Selvarya trovò suo zio già in piedi, intento a preparare una colazione frugale. Sul tavolo notò anche una pesante mantella di pelliccia. Osservò Aegil e, senza neanche bisogno di parlare, i due si compresero all’istante. La giovane, evitando di incrociare lo sguardo dello zio per non fargli notare gli occhi velati di lacrime, prese il mantello ed uscì di corsa dalla casa. Mentre già dirigeva il muso del suo cavallo verso nord, si voltò e con il suo solito ardore gridò all’indirizzo di Aegil, che la osservava sulla soglia della porta: “Ci vediamo presto, vecchio brontolone. Ti porterò un otre della migliore birra che tu abbia mai assaggiato!”
E così Selvarya si lasciò alle spalle quella che finora era stata la sua vita, diretta verso le fredde lande del Nord e la fiamma ardente del Dio Aengus. Il clangore metallico del suo martello che batte incessantemente sull’incudine la stava chiamando…
“Siediti ragazzina! Hai una fame da lupi vero?” esclamò la locandiera con voce squillante.
Selvarya si avvicinò al bancone, mentre si sfregava le mani intirizzite dal freddo. La locanda “Al Porco Infreddolito” le parve un miraggio dopo la lunga cavalcata che l’aveva condotta sino ad Hulborg. Ordinò un piatto di zuppa calda e si guardò intorno mentre pescava avidamente dalla ciotola col cucchiaio. La locanda aveva pochi avventori ma tutti parecchio chiassosi e gioviali; sentiva il calore arrivarle sia dal fuoco che dalle persone.
Sentendosi stranamente a suo agio azzardò una domanda rivolta alla locandiera:
“Puoi indicarmi la via per l’isola di Helcaraxe?”
La locandiera squadrò per un attimo la giovane prima di scoppiare in una fragorosa risata. Rimasta perplessa, solo in quel momento Selvarya osservò meglio la donna al di là del bancone: la superava in altezza di quasi un piede e, nonostante lavorasse in cucina, esibiva dei muscoli da far invidia ai migliori combattenti del Continente Umano. Fu allora che la donna, ripresasi dal riso, apostrofò Selvarya:
“E cosa cerca uno scricciolo come te ad Helcaraxe, a parte una morte prematura? Ora che ci penso, come sei arrivata qui viaggiando sola, ragazzina?”
In effetti il viaggio di Selvarya attraverso la Baronia era stato l’esperienza più provante della sua vita. Cavalcare tra le nevi, mentre dietro ogni albero o roccia si nascondeva un pericolo mortale, mise a dura prova la sua tempra; solo la volontà divina aveva fatto sì che giungesse incolume ad Hulborg.
“Beh, se sono giunta sin qui da sola forse non morirò prima di approdare ad Helcaraxe!” rispose infastidita Selvarya, con la solita sfacciataggine che la contraddistingueva e che per la prima volta sfoggiava da quando aveva lasciato il cosiddetto Sud.
La locandiera squadrò nuovamente la giovane, stavolta con sguardo accigliato. E nuovamente scoppiò in una risata ancor più roboante della precedente.
“Mi piaci ragazzina, perciò ti aiuterò. Ma attenta alla tua linguaccia, o finirà sotto la lama di qualche ascia nordica!”
Fu così che Selvarya, seguendo le indicazioni della locandiera, lasciò Hulborg e partì alla volta del piccolo molo dove era attraccata la nave per Helcaraxe, tra grotte, sentieri impervi e scoscesi dirupi. Mentre finalmente saliva a bordo dell’imbarcazione, le parve di udire in lontananza un suono ritmico e ripetuto, come di un martello che batte sul metallo rovente. Il suo sentiero, che aveva ora preso la via del mare, continuava ad essere illuminato dal fuoco della fucina di Aengus…
L’imbarcazione che l’aveva condotta sulle sponde di Helcaraxe era da poco approdata quando Selvarya iniziò a muovere i primi passi sul suolo di quell’isola: l’isola dove aveva vissuto suo padre e, soprattutto, la dimora del Dio Aengus. La giovane vibrava di eccitazione, o forse erano brividi di freddo, poco le importava; era finalmente giunta a destinazione.
La ragazzina si avviò verso il sentiero innevato e, poco dopo, si ritrovò all’interno di una grande città circondata da possenti mura, con strutture di legno e pietra sulle quali spiccava un’enorme costruzione: la Roccaforte dei Ghiacci. Mentre Selvarya avanzava, notò qualcosa di talmente alto da sovrastare le cime degli alberi e che pareva fissarla: era un Golem! Quale gioia provò nell’assistere in prima persona alla manifestazione del potere di Aengus, che lì sentiva permeare l’aria: quel vento gelido che, infuso della presenza del Dio, diventava un soffio caldo sulla sua pelle.
La giovane giunse in uno spiazzo dove, intorno ad un falò, sedevano diverse persone. Al suo arrivo, l’uomo più grande che lei avesse mai visto notò la sua presenza e si avvicinò per parlarle. Selvarya osservava dal basso l’uomo, che con la sua mole la sovrastava di quasi un braccio e continuava a fissarla. Fattasi coraggio, Selvarya iniziò a parlare:
“Salute! Io stavo cercando…”
Neanche il tempo di finire la frase che l’omone tuonò con la sua voce possente:
“Ti sei forse persa ragazzina?”
Selvarya, incredibile a dirsi, si ammutolì e non poté fare a meno di tenere lo sguardo fisso sul gigante che aveva di fronte, che per stazza e fierezza ricordava gli enormi orsi polari presenti sull’isola: i marchi che segnavano il suo corpo, il manico dell’enorme ascia che portava dietro la schiena e l’aura di potere che emanava senza neanche muoversi.
“Stai tranquillo Thorgad, non vedi che la stai terrorizzando?”
Una figura comparve da dietro l’uomo, una donna vestita di pelli di animale come era usanza da quelle parti e con i capelli rossi. La sua voce parve calmare un poco Selvarya, che si sentì stranamente rasserenata da quella presenza.
“Io sono Helena, tu come ti chiami?” disse la donna rivolta alla giovane, sorridendole pacatamente.
Selvarya sembrò recuperare un po’ del suo coraggio e riprese a parlare:
“Mi chiamo Selvarya e sono giunta qui per cercare una risposta”
Pronunciò la frase tutta d’un fiato, per paura di fermarsi nuovamente. L’omone, che nel frattempo era rimasto impassibile, si rivolse nuovamente alla giovane:
“Che genere di risposta?”
Selvarya raccontò quindi di Brom e delle sue origini, di come la famiglia di suo padre era fedele al Clan Valdar – e qui non le sfuggì un’espressione compiaciuta sul volto di Thorgad – e della ricerca che stava intraprendendo per trovare qualche testimonianza sulla vita di Brom prima che giungesse sul Continente. Thorgad la guardò per un attimo, prima di parlarle con voce calma ma autoritaria:
“D’accordo, Selvarya figlia di Brom. Se vuoi rimanere qui sei la benvenuta, finchè rispetti le nostre leggi. Ti auguro di trovare la tua risposta”
Dopodichè le fece un cenno e si voltò per andarsene ma, fatto qualche passo, si fermò e disse:
“Helena, fai fare alla ragazzina un giro qui in città. Non voglio che vada a mettere il naso dove non deve o si ficchi in qualche guaio”.
Mentre l’uomo si allontanava, Selvarya gridò con voce entusiasta:
“Grazie dell’accoglienza, prometto che farò la brava!”
La donna che si era presentata poco prima pose quindi un braccio sulle spalle di Selvarya e la guidò quindi verso l’entrata de “Il Troll Ubriaco”, la locanda più grande di Ardania. Mentre avanzavano, la giovane sentì il bisogno di chiederle se ci fosse un tempio. Helena la squadrò e, sorridendo, le rispose:
“A tempo debito. Qui non abbiamo semplicemente un tempio, abbiamo IL tempio!” La accompagnò oltre la soglia della taverna ed esclamò: “Ora pensiamo a scaldarci un po’!”
Appena varcata la porta de “Il Troll Ubriaco”, Selvarya si sentì travolta dal chiassoso calore del Nord: le grida, le risate, corni di birra che si alzavano al cielo, lo scoppiettare del fuoco. In quel baccano ritrovò finalmente lo spirito ardente che l’incontro con Thorgad aveva momentaneamente eclissato.
La ragazzina trascorse diverso tempo a conversare con Helena, che si dimostrò amorevole e comprensiva come la madre della quale non aveva più ricordi. Fu inaspettatamente piacevole trovare una persona tanto cordiale dopo la lunga traversata che l’aveva condotta ad Helcaraxe.
Dopo essersi rifocillate, le due si diressero finalmente verso la meta che tanto Selvarya aveva agognato: il tempio di Aengus. L’enorme struttura si trovava nel cuore delle montagne, il più vicino possibile alla dimora del Dio. Helena mostrò a Selvarya l’enorme statua dedicata al Fabbro degli Dei, lasciando la giovane assolutamente senza parole!
“Vieni, voglio farti vedere una cosa” disse la donna, cogliendo la ragazzina di sorpresa. Cos’altro poteva mostrarle di più eccezionale di quello?
Presero una porta laterale del tempio e salirono per una lunga scalinata. Giunte in cima, si ritrovarono al cospetto di una grande fucina. Il calore della forgia arrivò a Selvarya come una dolce carezza sul volto e la giovane cominciò a far danzare la sua mano sopra i tizzoni accesi, con un sorriso estatico sul volto. Helena, vedendola tanto rapita, continuò dicendo:
“Lo sai, si dice che Aengus stesso abbia lavorato in questa fucina”
In quel momento il cuore di Selvarya si colmò di una gioia tanto profonda da non riuscire ad essere contenuta, ed una lacrima rigò il suo viso.
“Sono a casa” sussurrò tra sé e sé, ed un sorriso si allargò sul suo volto.
Alcuni estratti dal diario di Selvarya ad Helcaraxe:
“[…] Ieri Thorgad mi ha invitato ad assistere ad un addestramento di Vikingr e Toskr, ovvero i guerrieri che difendono i territori del Nord. Vederli cavalcare sulla neve e caricare gli uni verso gli altri, vibrare fendenti e schivare frecce in un turbinio di lame e nel clangore di metallo su metallo è stato straordinario! La loro fierezza è pari solo alla loro furia. Non vorrei mai trovarmi di fronte alla valanga nordica, quando questa è pronta a travolgere tutto quello che incontra! […]”
“[…] Oggi mi sono accorta che era da un bel po’ che non trascorrevo del tempo alla forgia. Se lo sapesse Zio Aegil! Così mi sono recata da Dallin, il fabbro che ha una piccola armeria qui ad Helcaraxe, e gli ho chiesto se avesse bisogno di aiuto. Dapprima mi è sembrato diffidente, figuriamoci se aveva voglia di affidare qualche lavoretto ad una ragazzina e per di più Suver! Ma quando gli ho mostrato che non ero una sprovveduta, ha acconsentito a farmi affilare qualche ascia ed a riparare qualche cotta di maglia: beh meglio di niente! […]”
“[…] Resto ancora stupita dall’euforia che pervade le genti del Nord non appena varcano la soglia di una locanda. Qui a “Il Troll Ubriaco” c’è sempre una gran confusione e la birra scorre a fiumi. L’altra sera ci siamo seduti davanti al grande falò ed ho assaggiato nuovamente la birra che producono qui: diamine, non credo di essermi ancora abituata! Dopo solo un paio di sorsi sono finita gambe all’aria, cadendo dalla panca. Che figura da Suver… […]”
Erano ormai diversi giorni che Selvarya aveva trovato ospitalità tra le mura di Helcaraxe ed aveva imparato a conoscere le genti del Nord e le loro usanze. In questo tempo aveva continuato a cercare notizie su suo padre Brom, sia ad Helcaraxe che domandando al mercato di Grandeinverno, ma senza avere fortuna. Sembrava che nessuno sapesse nulla a riguardo e l’ombra sul passato di suo padre iniziava ad oscurare anche il sentiero che Selvarya aveva davanti a sé…
Ma è nei momenti più bui che il fuoco della saggezza risplende maggiormente ed al Nord la saggezza non manca mai di trovarti: a volte ha forma umana, altre volte forma animale ed altre volte ancora entrambe! Fu così che una sera Selvarya conobbe Konrad del Clan Kessel, un uomo che – a suo dire – era da poco tornato a camminare su due zampe. La giovane, tra lo scettico ed il meravigliato, rimase incuriosita da Konrad e, sentendosi a suo agio dinnanzi ad una persona che sembrava spaesata quanto lei, gli raccontò le vicende che l’avevano condotta tra le nevi del Nord. Con quella che Selvarya ebbe modo di apprendere era la riflessività del Clan Kessel, Konrad dissipò i dubbi che stavano attanagliando il suo animo e la sua solitamente ferrea volontà. “Non lasciare che i dubbi sul tuo passato annebbino il tuo futuro” così le disse e, con la semplicità che la contraddistingueva, così la ragazzina fece.
Con ritrovato vigore, Selvarya promise a se stessa che avrebbe percorso la sua strada personale, sua e di nessun altro. Che suo padre fosse stato veramente un servitore leale dei Valdar o meno, la giovane decise che non importava: a guidare le sue azioni da quel momento in avanti sarebbe stata solo lei…e gli Dei ovviamente!
“Goran, come posso essere sicura che la strada che ho deciso di intraprendere sia quella giusta e che Aengus sia soddisfatto di me?”
Il Sagarth fissava la giovane con sguardo fermo, quasi glaciale, mentre iniziava a parlare:
“Il volere degli Dei non è cosa che possiamo conoscere con sicurezza, Selvarya. Possiamo solo seguire i loro dettami con onore e sperare che non distolgano il loro sguardo benevolo dai figli meritevoli”
La ragazzina annuì mestamente, poiché sperava di ricevere una risposta più diretta. Ma Goran continuò:
“Quello che ti attende ti potrà però essere rivelato tramite un antico rito che viene da sempre praticato ad Helcaraxe. Le rune ed il significato che esse celano potranno dirti di più sul tuo destino”
Una nuova fiamma si accese negli occhi di Selvarya, colmi di speranza ed aspettative. Ed il momento della rivelazione non si fece attendere…
Più tardi quella sera, infatti, il popolo del Nord si riunì al villaggio di Kaek Valdar per assistere all’antico rituale della lettura delle rune. Il cuore di Selvarya cominciò a battere all’impazzata mentre il saggio Cartis la invitava ad avanzare verso quello che sembrava un piccolo altare. Davanti a lei giaceva un grande recipiente di pietra che conteneva diversi ciottoli, su ciascuno dei quali erano incise le rune del destino.
“Poni la tua domanda, ragazza, e poi scegli le rune che ti indicheranno la risposta. Ricorda che le domande più complesse richiedono più rune per ottenere un responso significativo” disse Cartis con voce calma ma ferma.
La giovane volse lo sguardo al cielo e chiese:
“E’ il mio destino quello di vivere tra le nevi e di lottare, gioire e soffrire con i miei Syskar?”
Si avvicinò poi lentamente alla ciotola ed indicò a Cartis una runa. Il saggio prese in mano il ciottolo ed osservò il marchio inciso.
“Kaunan, Ikke!” tuonò a gran voce, così che tutti potessero sentire e fossero testimoni di quel momento.
“Kaunan è la runa del Sacrificio, ma è stata estratta al contrario, Ikke! Indica quindi che la tua permanenza qui non sarà un Sacrificio, anzi! Il tuo percorso gioverà a te ma soprattutto a noi”
Lo sguardo di Selvarya si colmò di gioia nell’udire quelle parole, ma Cartis continuò:
“Vai avanti, ragazza. La tua era una domanda molto complessa, richiederà pertanto 3 rune al fine di svelare la risposta che esse celano”
“D’accordo, scelgo questa allora” disse la giovane mentre indicava una seconda runa.
“Fehu, Ikke!” fu ciò che Cartis disse mostrando ai presenti un altro ciottolo.
“Fehu è la ricchezza materiale, ma anche questa runa è stata estratta al contrario! Avrai dunque una vita lavorativa complicata qui al Nord, ma i sacrifici economici che sosterrai ti aiuteranno a trovare il tuo posto. Scegli ora l’ultima runa, ragazza”
Selvarya inspirò a fondo e puntò un altro ciottolo nel recipiente.
“Aaah, Berkanan! La runa della Betulla” disse Cartis sorridendo lieve. “Indica la bellezza in tutte le sue forme e nel tuo caso simboleggia il futuro roseo che potrai avere qui al Nord”
La giovane chinò il capo rivolta verso Cartis e riprese il suo posto tra i presenti, senza riuscire a nascondere un sorriso.
Le rune e gli Dei avevano parlato, il destino aveva fatto udire la sua voce…
“Ragazzina, Thorgad ti sta aspettando al tempio di Aengus! Vedi di sbrigarti”
Il sempre burbero Sigvarth apostrofò Selvarya mentre passeggiava per le strade di Helcaraxe, rimuginando sul significato di quanto appreso qualche sera prima. La voce del vecchio la ridestò e la giovane si precipitò quindi al tempio come indicatole.
Giunta presso il grande edificio di legno, varcò l’ingresso e percorse la navata fino a giungere dinnanzi alla possente figura di Thorgad, talmente eccitata da non accorgersi neanche degli altri nordici seduti ai lati. Non ebbe neanche il tempo di domandarsi come mai si fossero tutti radunati lì che Thorgad iniziò a parlare:
“Bene ragazza, è giunto il momento di vedere se come dici sei davvero favorita dal Dio Aengus!”
Così dicendo, indicò a Selvarya una porta sul lato del tempio. La giovane aveva già percorso in precedenza la lunga scalinata che si celava dietro la porta e sapeva benissimo dove sarebbero quindi giunti: alla forgia celeste.
Selvarya faceva da apripista al gruppo di persone che la seguivano e sentiva il suo cuore quasi esplodere mentre saliva le scale. Arrivati in cima, la ragazzina notò subito la massa di metallo lucente deposta ai piedi della fucina dove si diceva avesse lavorato Aengus in persona. Guardando con maggior attenzione, notò come le parti metalliche fossero perfettamente armonizzate tra loro, tanto da poter formare il corpo di un enorme costrutto umanoide: quelle che aveva di fronte erano le parti di un golem!
“Dunque ragazzina, vediamo se Aengus ti sta guardando ora e se sei nelle sue grazie” disse Thorgad mentre con un gesto della mano indicava la forgia.
Selvarya trasse un profondo respiro ed avanzò verso la mole di metallo, sulla quale erano riflesse la sua figura ed il rosso dei tizzoni ardenti della fucina. Con una solennità normalmente estranea ai suoi comportamenti, la giovane chiuse gli occhi mentre spandeva della polvere sulfurea sul golem inanimato ed intonava una lenta litania. Improvvisamente dalla forgia si alzarono fiamme urlanti che andarono ad avvolgere la polvere rendendola splendente; questa parve poi raccogliersi in un unico ammasso e fermarsi a mezz’aria, come una sfera di fuoco liquido dal bagliore accecante. I presenti osservavano ammirati, mentre ancor più incredibilmente le parti metalliche del golem si sollevavano da terra ed andavano a racchiudere la sfera, quasi questa fosse il cuore pulsante della creatura. Con un clangore che fece sobbalzare il cuore di Selvarya, il golem si assemblò ergendosi in tutta la sua possanza: un enorme figura nera come la notte e pronta ad incutere timore ai suoi nemici.
Thorgad osservò il golem, tanto alto addirittura da sovrastarlo, ed esclamò:
“AENGUS HUSBONDI!”
Estrasse poi un pugnale di Orialkon dal suo cinturone ed iniziò ad incidere la superficie del golem:
“Voglio donare tre rune alla tua creatura per ringraziare il Dio Aengus e te, ragazzina”
Mentre muoveva la punta del pugnale, disegnando le rune sul metallo ancora rovente, tuonò a gran voce a beneficio di tutti i presenti:
“La prima runa di cui ti faccio dono è Ansuz, la Forza degli Dei! Che questa creature risplenda della forza necessaria a schiacciare tutti i suoi avversari”
Mosse quindi il pugnale più in basso ed tornò a parlare:
“La seconda runa che ti dono è Gebo, il Dono degli Dei! Perché indubbiamente Aengus ti favorisce ed è prodigo nel dispensare i suoi doni a te, ragazzina”
Giunse infine ad incidere un’altra runa, dicendo:
“La terza ed ultima runa che ti offro è Tiwaz, la Guerra! Che tu possa sempre combattere con il fervore del Dio e spazzare via ogni nemico sul tuo cammino”
I tre segni risplendevano di un chiarore innaturale, in contrasto con il metallo scuro. Thorgad soffiò quindi sulle rune appena incise e diede una vigorosa pacca sulle spalle a Selvarya.
“Molto bene, ragazzina. Oggi hai dato a tutti noi una grande dimostrazione del tuo valore. Credo che sia giunto il momento…”
Cinse quindi la ragazzina con l’enorme braccio muscoloso e si incamminarono – o meglio, Thorgad si incamminò trascinando Selvarya – nuovamente verso il centro di Helcaraxe. “Sei davvero benedetta dal Dio!”
La Sala Grande della Rocca dei Ghiacci sembrava immensa in quel momento, talmente grande che Selvarya pareva ancora più piccola di quanto realmente fosse. Le torce alle pareti illuminavano gli alti soffitti, proiettando le lunghe ombre dei presenti. Un gran numero di persone era infatti lì raccolto per assistere all’evento: quella ragazzina, una Suver arrivata qualche tempo prima tra le nevi di Helcaraxe, era ora pronta a prestare giuramento dinnanzi al Konungur ed agli altri Syskar!
Già, Syskar. Così si chiamano tra loro le genti che popolano Helcaraxe, uomini e donne indistintamente. Nella lingua comune ha un significato simile a “Fratello”, ma Selvarya aveva imparato che c’era molto di più dietro quella parola. Lo spirito che univa il popolo dei ghiacci era qualcosa di così profondo che raramente si era visto a sud dell’Orus Maer. Ed ora la giovane stava per entrare a farne parte: vedeva finalmente la meta in fondo al sentiero che aveva intrapreso quando aveva lasciato il Continente Umano.
Mentre Selvarya giocherellava nervosamente con il ciondolo a forma di martello che indossava, improvvisamente gli sguardi di tutti si volsero verso la scalinata che dominava il centro della Sala. Ne scese un uomo la cui aura di grandezza poteva essere percepita anche a distanza: Kaek Valdar il Canuto, Konungur di Helcaraxe!
La giovane ebbe un breve sussulto, ma riprese subito il controllo e fece di tutto per mostrarsi composta davanti a Kaek. L’uomo iniziò a parlare:
“Dunque ragazza, ho sentito parlare di te da Thorgad e da altri Syskar. Sembri essere una Suver con la testa sulle spalle, nonostante la tua età e la tua… provenienza. Ora dimmi: di fronte a me, a tutti i presenti e di fronte agli Dei, sei pronta a prestare giuramento?”
Selvarya rispose prontamente:
“Ja, sono pronta! Qui dinnanzi a voi, io giuro di vivere con onore e rispetto tra le genti del Regno di Helcaraxe. Che i Syskar qui presenti e gli Dei mi siano testimoni!”
“Bene ragazza, allora prendi questo ed indossalo, onorandolo con le tue parole e le tue azioni” disse Kaek, porgendo alla giovane un mantello di colore rosso scarlatto, il manto di Kurdan.
“E ora – tuonò il Konungur – salutate la vostra nuova Syskar!”
Selvarya scorse con lo sguardo i volti di tutti i presenti e vide molte facce amiche che le sorridevano, tra il frastuono delle lame sbattute sugli scudi e le urla di incitamento. La giovane sorrise, sorrise con il cuore colmo di gioia come non le succedeva da tanto tempo. E non ebbe dubbi nel sentire su di sé lo sguardo di Aengus, il Dio che con il bagliore della sua fiamma l’aveva guidata tra le nevi.
L’ultimo passo sul suo sentiero era stato compiuto.
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