Qui i giocatori di The Miracle lasciano imprese, poesie, narrare eventi e grandi avventure avvenute e in svolgimento su Ardania. Linguaggio strettamente ruolistico.
È porgendo riverito omaggio al consiglio degli economi, che questo vostro umile commesso fa nota dettagliata dei fatti recentemente intercorsi sulla piazza d’occidente, in attesa di ulteriori vostre e con la sincera speranza che i nostri detrattori abbiano a riaversi dall’insensata pervicacia che li pone in opposizione a questa nostra onorata società.
Ma, in ossequio al sempre considerato giudizio degli economi, questo vostro umile commesso sospenderà il giudizio e avrà cura di riportare, al netto di perdonabili piccole imprecisioni e commenti che questa mano non può esimersi dall’esprimere, gli eventi susseguitisi negli ultimi mesi e settimane.
Con la benedizione di Awen, patrono dei caritatevoli e dei pietosi.
Servo Vostro, --------
Rapporto I°, alla data imperiale --------
K-------- invia una missiva ai nostri detrattori, eldar di Valinor, ponendo questione circa la tassa che questi vorrebbero, qualora l’intelletto loro li rendesse abili alla contrattazione, versare presso le casse dell’onorata società, assicurando beni, servizi e speciali trattamenti per le loro genti. L’incarto, con l’onesta proposta di contratto prefirmata, è recapitato ad una delle guide del Bianco Concilio il medesimo giorno: 200.000/duecentomila pezzi d’oro per vaglia su base mensile.
Come sempre, l’onorata società ebbe a disporre un tempo limite per ottenere risposta: ahimè, considerato il minuto donatico e i ricchi proventi assicurati, mi duole sottolineare che, sebbene a ragione, il consiglio degli economi si dimostrò troppo fiducioso e addirittura prorogò la scadenza fissata.
L’onorata società e il consiglio degli economi tutto mal si disposero per il silenzio di Valinor, di cui si seppe nelle immediate circostanze, stesse trattando alleanza e mutuo aiuto con un tale nostro competitore, A--------. In virtù di tale incomprensibile reazione, questa onorata società dispose per l’invio di un drappello di messaggeri, gente educata al freddo: che quella fosse la chiave per rompere il gelido mutismo dei nostri nuovi clienti?
Si piantò un piccolo campo nei pressi dei loro confini estremi, da cui sarebbero partite le ambasce diplomatiche d’occidente. Ma, purtroppo, anche questo tentativo a nulla valse: gli elfi di Valinor non sembrarono accorgersi delle quanto più oneste intenzioni di questi nostri ambasciatori, forse neanche li ricevettero. Disdetta!
Fu in questa circostanza, che, l’economo M-------- prese contatto con questo umile commesso e la mia modesta opera ebbe a cominciare.
Mi trovai a passeggiare per la tiepida valle feconda. Un bel cappello piumato e panni finemente tessuti indosso, una scarsella di cuoio duro in cintura e stivali lucidi, così nuovi che ancora mandavano qualche scrocchio!
Che lusso questi elfi di Valinor: in quel luogo fatato non c’è da soffrir stagione alcuna né fame… acqua profumata zampilla dai fiumiciattoli che corrono tra le architetture eleganti delle case; l’ombra degli alberi è fresca ma mai fredda e pure la luce del giorno pare meno forte negli occhi! E che silenzio, che pace! Tutti gli elfi hanno grandi spazi a loro disposizione, camminano quieti e lavorano con calma. Tutto è abbondante ma mai opulento, in quella valle feconda. Pure la cittadella, vi dico, sebbene operosa come un’arnia, ha l’anima d’una canzone d’amore sussurrata all’orecchio di un’amante.
Ah, se sapessero a quali orrori è costretta la gente lontana da quel luminoso e chiuso mondo… che sia questo a renderli così sfuggenti? Perdonatemi, miei illustri, la licenza poetica.
Passeggiai a lungo nel letargico luogo, quando il rumore battente di un maglio da fabbro su un’incudine mi stuzzicò l’orecchio. Guidato dal timbro acuto, raggiunsi una casa sul versante occidentale dell’anello esterno alla cittadella. Ancora mi trovavo a diversi metri di distanza, quand’ecco che il suono s’arresta e la nobile figura di un elfo appare sulla porta, deposita qualche oggetto in un forziere nel patio e rientra nell’abitazione, dalla quale subito riprendono i colpi di martello.
Questo vostro umile commesso si scusa con l’onorata società, nel dire che la curiosità è il suo difetto e l’occasione il suo vizio. Mi accostai al forziere, lo scrocchio degli stivali sull’erba rada coperto dal picchiare metallico.
Incredibile vi dico, il paradiso in cui questi elfi vivono! Grande fu lo stupore nel trovare quello scrigno aperto e ricco di magici cristalli e sangue d’altre pericolose bestie.
Ma vi immaginate, miei distinti economi, un mondo così al sicuro da poter lasciare i propri beni all’aria, a disposizione della comunità? Un mondo senza profittatori, la cui ingenuità è preziosa quanto industre. Quando gli uomini ne saranno in grado? Accidenti, divago ancora.
Dovendo portare la mia modesta opera a compimento, dovetti dunque forzare la mia mano nel raccogliere i frutti di quella ricca mensa per me apparecchiata con tanta dovizia. E con quel tanto martellare, furioso ma gentile, mi permisi anche di lasciare le righe che mi consegnaste, illustri economi, che pronto trascrivo:
“Salute, elda di Valinor.
Chiunque tu sia, siamo spiacenti dell'averti dovuto sottrarre qualcosa. Abbiamo voluto giocare, ma siamo certi le tue spalle siano abbastanza larghe da sopportare una piccola donazione, ben più che un coltello conficcato tra le scapole e un ignobile spreco del sangue nobile che porti.
Prestami attenzione, elda di Valinor.
Domanda al tuo Argur cosa gli è stato chiesto da K--------. Chiedigli se lui avrebbe potuto evitare che le tue tasche ci rimettessero, al posto di quanto gli avevamo domandato. Suggeriscigli che l'oro non vale il sangue nobile del tuo popolo. Esigi, che quanto ti è stato sottratto ti venga restituito, ma non dalla collettività, da Lui stesso. Poiché è Lui, il responsabile della tua perdita e sarà Lui il responsabile di quanto avverrà in futuro.
Ah, elda di Valinor, aggiungi pure questa postilla se vuoi, ma sii letterale:
Sappiamo delle untuose strette di mano tra la corona di Finwerin e quella di Dar-------- L'orgia oscena che intrattenete, quell'amplesso infetto e blasfemo che potrebbe farsi matrimonio, vi porterà a conseguenze ben peggiori di una gabella o di qualche furto. Siate lungimiranti e saggi così come sostenete di essere.
La Società di Pietra”
Credetemi quando vi dico che fui triste nell'apprendere, dalle mie successive visite alla valle, che tutta l’ingenuità preziosa e industre degli elfi di Valinor era svanita, lasciando il posto a pesanti lucchetti e ad una serpeggiante sfiducia.
Passò altro tempo. Un tempo silenzioso, noioso, addormentato. E se è vero che la lettera a vostro nome consegnata da questo vostro umile commesso ebbe a sortire effetto (già vi dissi delle dolorose scoperte al rapporto precedente), null'altro si seppe, né comunicazioni questa onorata società ricevette dagli elfi di Valinor.
L’economo M-------- allora mi chiese di prestar nuovamente opera e, quando il dovere chiama, questo servo è tenuto a rispondere.
Tornai, indispettito, alla valle: che mai circola nelle teste di quegli elfi? Perché, per Awen, si ostinano a questo silenzio? Che sia un problema di traduzione? Che non abbiano inchiostro per scrivere? Che il loro sonno sia lungo e profondo come le loro vite? Domande e divagazioni, miei illustri, di cui avrete a perdonarmi, ma che per gli Dèi, disturbano le mie notti come una cena di carne avariata!
Ricomincerò da dove lasciai: a quell’ingenua e quieta aria di collettività, si era in effetti sostituita una sottile brezza di sospetto e preoccupazione, sotto forma di lucchetti e porte sprangate in ogni dove. Ma questo vostro umile commesso è caparbio e, sebbene abbia consumato le suole tra i sentieri della valle (allego alla presente la minuta al conto del calzolaio), riuscì a ottenere, da alcuni bauli polverosi lasciati al pubblico uso, una chiave.
Per poco non urlai dalla gioia: non tutti gli elfi erano stati colti dal male del sospetto!
Ma quale serratura avrebbe aperto quella chiave? Senz'altre tergiversazioni vi dirò che presto mi ritrovai sul ponte di una bella fregata dalle vele bianche, ormeggiata all'ombra di un costone di roccia.
Immagino la pena che ebbe Danu la notte istessa: me la figuro a spiarmi da un'incerta Nut tra nubi di tempesta. Questo figuro solo e infreddolito, suo servo ahimè negligente, a legare una dozzina grappoli di incendiarie sul ponte della fregata e a dar scintilla. Vi parrà vanagloria, ma Dèi! Neanche un funerale nordico ebbe a contemplare così tante ed alte fiamme!
Al mattino seguente, di nuovo mi recai nella valle. Nelle mie tasche, un altro messaggio di vostro pugno scritto, fu consegnato alla cassetta personale dell'Argur:
“Salute Argur en'Valinor,
la Società di Pietra si rallegra che il messaggio sia stato ricevuto, ma si rammarica e preoccupa dell'ostinatezza mostrate e, perdonerete l'ardire, della miopia che poco si confà al retaggio del vostro nobile popolo.
Scendete a valle dalla vostra fortezza di giovanile ostinazione, nobile elda!
Ieri è stato piccolo danno alle tasche dei vostri tòronin, oggi uno splendido vascello dalle bianche vele si è inabissato, e riposa nelle profondità del mare.
E domani? Cosa vi suggerisce la lungimiranza, che è propria del vostro nobile sangue?
Quale saggezza c'è nel celebrare un così blasfemo matrimonio con gli atan della --------?
Quale il guadagno dal percorrere questa via, in ginocchio su pietre acuminate e con la schiena colmata dai colpi di scudiscio?
Vi lasceremo ancora poco tempo per riflettere Argur en'Valinor, e ci auguriamo le vostre scelte siano guidate da Saggezza e Lungimiranza.
Miei illustri, questo vostro umile servitore non può che commentare acremente i fatti che avvennero, poiché nulla è più irritante della stoltezza e, peggio, quando la si scopre in un popolo tanto nobile come quello degli elfi.
Quella bella e robusta nave data in pasto alle fiamme, ancora una volta, a nulla era valsa.
Dovetti tentare di nuovo. E di nuovo, dovetti abbassare l’asticella della cordialità e dell’educazione, pur di cercare la tanto sperata risposta positiva che voi, saggi economi, desirate.
Con piedi freddi e mani tremebonde, affrontai il periglioso viaggio fino alla patria degli elfi. Questa volta, m'ero deciso, non avrei avuto requie finché non avessi intrattenuto qualche parola con un elfo dal manto pallido. E poiché Awen è grande e la sua protezione poggia sul capo dei bisognosi, fui benedetto di trovarne uno, intento nell’estrarre metalli in una delle grandi cave sul fianco occidentale dell’Elvenquist.
Saprete che gli elfi sono creature contemplative ed ogni loro azione, anche quella che ai nostri occhi potrebbe apparire la più ignobile, è svolta con minuziosa quasi sacrale attenzione. Perdonerete questo vostro umile servo, quando vi dice che il più pio dei sacerdoti umani non raggiungerebbe in cent’anni la concentrazione che un elfo presta persino nell’evacuare i propri intestini al mattino, credetemi!
Forte di tali nozioni, scivolai tra le rocce: il picchiare del piccone e la polvere sollevata mi rese un fantasma indistinguibile sul fondo bruno della caverna.
Pochi passi graffiati sul pietroso pavimento della grotta e fui alle spalle dell’elfo. Il suo respiro regolare, quieto. L’odore della pelle così diverso dal nostro, tale a quei vini profumati che, così di rado, giungono da Rotiniel. Avvolsi alle mani i due capi di una corda di budello, di quelle morbide e resistenti che i musicisti incerano per far cantare i loro liuti e i loro violini. L’ostinato ritmico del piccone diede il tempo ai miei passi: in un battito di ciglia, l’elfo, fragile e nobile, si trovò a soffocare nella stretta brutale d’un cappio. Strinsi forte ed incrociai gli avambracci per serrare ancor più la morsa.
Calò il silenzio.
Non è forse la pausa del silenzio, a dare spessore drammatico a certe sinfonie? Divago ancora, divago troppo.
Accostai la guancia sui suoi morbidi capelli, il naso freddo e le labbra umide al suo orecchio appuntito.
Sussurrai: “Preso.” L’elfo dibatteva braccia e gambe, come una marionetta lasciata dondolare al vento. Dalla sua voce costretta un grido d’aiuto, ridotto ad un gorgogliante, inudibile sussurro.
“Ti porto una promessa fatta qualche settimana fa, elda. La Società di Pietra non scherza.”
Tiravo verso di me, gambe divaricate e piedi piantati a terra. Tirai ancora, finché la schiena dell’elfo non si piegò all’indietro e fu in mia balìa.
“Dillo al tuo Argur. Dillo agli altri Valinrim.”
E più stringevo, più i piedi dell’elfo battevano il terreno e la sua tensione muscolare veniva meno. Quel corpo così vitale, vigoroso, era ridotto all’impotenza di un pesce gettato su una spiaggia riarsa dalla calura estiva.
“Ssshh. Non ti salverà nessuno qui. La città non è sicura. Voi, non siete al sicuro.” Strinsi ancora il cappio. Gli spasmi dell’elfo a poco a poco si placavano e l’affannato respiro dalle sue narici, si faceva sempre più sottile. Un attimo ancora, solo un istante e l’avrei consegnato al luogo dove riposano i loro eroi ed i loro Dèi.
Ma... perdonerete questo mio cuore dolce, miei illustri. Non ebbi coraggio o forse fermezza abbastanza per estirpare quella vita e lasciarla alla polvere di una miniera. Mi parve inestetico, grossolano, inadatto. Chiamatelo pure eccesso di gentilezza, se volete. Un istante prima che il suo respiro si fermasse lasciai il collo del nobile elfo che cadde aggraziato nella polvere, vivo, sebbene col fiato scorciato come fosse un arazzo fatto in pezzi a colpi di forbice.
Feci scivolare una fiala nera sul pavimento di roccia. E fu fumo denso a coprire il mio atto d’incondizionata carità.
Passarono -------- notti dal mio atto di carità. Ma neanche questo scosse gli elfi di Valinor.
Né una comunicazione, né atto pubblico alcuno.
Viene da domandarsi se abbiano davvero una struttura gerarchizzata, o se la loro cultura sia così avanzata da non averne bisogno.
Benché questo vostro umile servo abbia davvero a cuore gli elfi e provi riverenza verso il loro nobile sangue, miei illustri, ammetterò candidamente che la frustrazione prese il sopravvento sul cuore tenero che già sapete.
Quattro i tentativi di ricorrere alla ragione; quattro i tentativi di mostrare clemenza e lucidità, quattro i tentativi di giungere ad un accordo o intavolarne uno che fosse di reciproco vantaggio.
Zero, le risposte.
Mi permetto dunque di iniziare a credere che gli elfi di Valinor non siano né fini pensatori, né cauti strateghi, ma solo indolenti e sciocche creature che, da dietro lo schermo dei loro monti, amano dilettarsi in fantastiche e melancoliche memorie d’un glorioso passato.
Tempo. Il tempo che essi hanno a disposizione li rende pericolosi. Rinchiusi là, nella loro gabbia di pietra bianca, essi attendono e fingono che il mondo estraneo non esista affatto e fanno, ay eccome se lo fanno, fanno di questa leziosa attesa la strategia con cui dileggiano noialtri, noi che viviamo esclusi dalla luce in cui essi vivono quelle loro esistenze benedette.
Nay, miei illustri. La penna non può più contenere il carattere dell’umile mano che vi serve. La penna non può più essere tramite di comunicazione, ma solo di ultimatum schietti, come un’ascia che stia per calare sul collo di un’anatra ingrassata con frutta secca e mele.
Di questa ennesima mia visita alla valle feconda, vi dirò il meno possibile, poiché i suoi dettagli brutali sarebbero cosa troppo indecente, anche per questa indegna relazione alle eccellenze Vostre. Sappiate solo che l’indomani del --------, due corpi decapitati sono stati trovati sui verdeggianti prati della valle, immersi tra le perle di rugiada del mattino. Una volta ancora, un messaggio a Valinor, alle guide, all’aran Makindur Eldamar, alla bereth Beriannen en’Nimbreth e finanche all’ultimo ciabattino dai denti marci possa abitare quelle lande benedette.
Riposino quei corpi sotto le Belenil e sotto lo sguardo addolorato dei Valàr.
Implorino Beltaine, Alta Amil, di non tornare tra i vivi, che sia loro concessa la grazia di non dover sopportare la vicinanza e la sciocchezza di chi li guida, sia il mistero della morte il sonno dolce che allontana da troppa sofferenza.
Ancora due missive miei illustri, inviate solo per rispetto alla modesta opera che mi comandaste di compiere, per l’onorata Società che ci lega, per rispetto a chi tra i calaquendi ha ancora orecchie ed occhi che comprendano e vedano:
“Salute guide di Valinor,
questa notte due corpi decapitati sono stati lasciati sulle strade della vostra città e della vostra valle. Né mura, né montagne, né arcani rimedi o blasfeme alleanze vi proteggeranno.
Potete ancora fermare tutto questo.
Recapitate tramite missiva di credito 250.000 pezzi d'oro, ogni -------- giorno del mese, a colui che risponde al nome di K-------- presso --------.
Inoltre, come pegno di buona volontà e fiducia, attendiamo l'immediato rilascio di coloro che --------. Siano essi condotti in sicurezza nel --------, dove già hanno trovato rifugio i loro fratelli.
La meridiana comincerà a scorrere dalla prossima mensilità, per la quale ci aspettiamo ottemperiate ai vostri obblighi.
Nessun contatto, nessun pubblico danno.
Dimenticherete presto le tristi conseguenze a cui hanno condotto le vostre poco avvedute scelte e tornerete a contemplare la quiete della valle e i vostri Dèi senza alcun timore.
Contrariamente, non avrete requie o clemenza alcuna.
Pochi giorni prima del termine della scadenza delle nostre richieste, tornai a calcare passo nella valle feconda. Camminavo nel fitto della boscaglia e tra i crocicchi della cittadella, misurando ogni passo. Trovai due elfi di Valinor, come sempre operosi e dediti alle loro attività e… vi dirò che sorpresa ebbe questo vostro umile commesso, quando i due, spinti come da divina intenzione, presero a pattugliare i quieti sentieri della dolce vallata, con al seguito una muta di segugi, volpi e una grossa serpe dalle scaglie argentate.
Sogno o son desto? O, per meglio dire: sogno o son desti, loro?
Furono una manciata di attimi prima che i segugi dei due avessero a fiutare l’odore fuligginoso dei miei stracci non più freschi di confezione sartoriale.
Inseguito, lasciai seguissero la scia odorosa che mi lasciavo dietro.
Superai il varco. I due e le loro bestie da caccia, alle mie costole: impronte di tortuosi itinerari confuse nella neve, corpi caldi e cuori pulsanti nella morsa dei freddi picchi dell’Elvenquisst. Il calore e il rumore, attirarono le lucertole che vivono lassù e fu un nugolo di artigli, fischi e soffi. Le bestie si gettarono sui due inseguitori, che nella foga di far preda di questo vostro umile commesso, ne solleticarono le ferali attenzioni. Sangue e frecce sulla neve, uno scontro rapido e caotico di cui i due elfi di Valinor ebbero ragione.
Non volli toglier loro il piacere e l’orgoglio di aver finalmente visto chi di penna e coltello ha scosso la valle feconda e ha risvegliato in essi tanta caparbietà. Della coppia, quello che mi parve essere il cacciatore tra i due, era rimasto più ferito nella disputa con le lucertole.
Un singolo affondo e sarebbe divenuto un corpo morto, l’ennesimo, da abbandonare nel ghiaccio.
Fui alle sue spalle, la lama seghettata in pugno.
Collo, quattro dita sotto la mandibola, un’esecuzione veloce; ascelle, con la punta del coltello, morte lenta, da soffocamento; stomaco e fegato, morte dolorosa, il dissanguamento può durare ore; reni, affondo dal basso verso l’alto, soffocamento lento e sanguinamento; gluteo, affondi in serie, dissanguamento e dipartita celere.
Calai un colpo sulla sua testa, con la guardia, vi impressi tutto il mio peso. Uno scrocchio d’ossa dal suo cranio e fu a terra, svenuto. Dalla neve balzò fuori la grossa serpe argentea, a protezione del suo padrone. L’altro elfo era schiacciato contro una parete montana, i segugi stretti alle sue gambe.
Stallo.
Niente sangue sulla neve quella notte, ma un plauso a chi si dimostra degno del nobile sangue che porta.
Mi trovai accontentato da quanto visto e mi ritirai, veloce, tra gli alberi rinsecchiti.
*Il rapporto, a differenza dei precedenti, si presenta come un disastro di cancellature, stili calligrafici diversi, parti di testo sovrapposte a caratteri tengwar elfici. Il testo appare disposto senza cura, alcuni paragrafi sono stati scritti in verticale. La pergamena è bucata in più punti, ritagli quadrati di altre pergamene sono cuciti sull'originale. Sembra il lavoro di un malato di mente.*
Rapporto VIII°, alla data imperiale --------
Il messaggio condotto a Valinor, così come tutti i suoi precedenti, non ebbe risposta alcuna.
Oramai i termini erano scaduti da diverse settimane e un sentimento di vergogna s’era fatto sempre più spazio nei miei pensieri tormentati da dubbi, sentieri inesplorati e tattiche che non ottenessero sempre e solo quel frustrante silenzio oqualche singhiozzo d’orgoglio sopito.
Non avrei ceduto di un palmo, di questo ero certa. E se gli eldar, i calaquendi, avessero ostinatamente continuato questo gioco al massacro, quello avrei dato loro, nella lingua e con i simboli a cui tanto sono affezionati.
La notte che venne, il ------- del mese --------, mi decisi che sarei tornata alla valle feconda. Raccolsi i miei quattro stracci ormai consumati dalle sortite di cui già sapete e imboccai, ancora una volta, il lungo e tortuoso sentiero che dà accesso ai luoghi fatati del reame eldar.
Già l’attendere un’intera notte al tagliente freddo della stagione, mi mise di pessimo umore. Non vi dirò poi il passarlo con l’allegra e loquace compagnia delle bestie locali! Orribile, davvero. Ad ogni modo, l’indomani, alle prime luci del mattino, mi scrollai il ghiaccio indosso e, col favore di una luce appuntita quanto il coltello che porto in cintura, mi feci ombra tra i profili allungati degli alti alberi e delle case. Avrei parlato con qualcuno. E quello sarebbe stato ad ascoltare.
Ora: abbiamo già esposto della riluttanza dei Valinrim a qualunque scambio civile e che, io nella mia modesta opera, abbia tentato l’impossibile pur di evitare di ricorrere a metodi così orrendi. Direte voi, mie eccellenze, che null’altro doveva esser fatto, che ogni cortesia poteva in effetti, andarsene al Paravone o come chiamate quel buffo attributo dell’idolo Danu.
L’idea mi sfiorò, sarò sincera. Ma nay, una via era rimasta intentata: quella personale. Perché buttare tutto in malora quando esisteva ancora la possibilità che anche un solo, singolo eldar,avesse davvero a cuore la sua collettività? Che un unico anello potesse difenderli tutti?
Con quest’idea sciocca e cavalleresca idea mi ritrovai un’altra volta, alle spalle di un Valinrim. Io, con una corda di budello stretta attorno al suo collo e lui, come sbagliarsi, in un letargico, ostinato silenzio… rotto solo dal ruggito della grossa tigre che balzò fuori dalle fronde e, vi dirò, poco mancò che non mi lasciasse a dissanguare tra i prati della valle feconda
. Ennesimo fallimento, se non altro per la mancata conversazione. Dovetti ritirarmi.
Lo stesso giorno, tornai. Ero fuori di me. Passi veloci e sangue alla testa. Qualcuno dirà che la mia razza è estranea alla rabbia, alle emozioni forti, al rancore. Sciocchezze, siamo solo addestrati fin dalla nascita a controllarle. Ma a volte il controllo cede.
Fuori dalla cittadella, nel silenzio, un tubare di due voci melodiose, eldar parlanti in comune, inconfondibile per via di quegli accenti un po’ troppo anticipati, l’uso di termini un po’ troppo graziosi e ricercati, una sinfonia sintattica che è tutta “un po’ troppo”, per un atan qualunque.
Li seguii come farebbe qualche scuro rapace affamato. Nella piazza dove discussero d’arte, in mezzo ai vicoli dove discussero di religione. Sui sentieri esterni alla cittadella, dove ancora addussero commenti leziosi e quasi erotici sul bel profilo di lui e l’amore per i fiori di lei.
Colombi, svolazzarono nella valle, fino alla dimora di lei. Pazienta, serva! Osserva la virtù. Hai tempo in abbondanza, serva, sii lungimirante. Medita serva e opera con saggezza.
E dunque attesi. Il loro cinguettio ovattato dietro i muri. I passi appena percettibili, tra lievi risate, su e giù, su e giù, su e giù per le stramaledette scale. Ogni gradino un’orazione ed un encomio a qualche passata gloria o presente e futuro impegno, qualche bicchiere di vino, caldi e freddi antipasti sbocconcellati per cortesia. Valàr, un rogo di voi sarebbbe più gradito alle mie orecchie che altra ignobile, inutile conversazione di stucchevole garbo infiocchettata.
Venne la sera. Il legno delle scale, scricchiolò col suono ormai familiare di una discesa.
E le voci si fecero vicine, la porta si spalancò e sull’uscio si udì un dolcissimo: “Naàmarie”. Lui la lasciò. Lei rimase, meditativa, sulla porta aperta. Quell’ultimo sospiro le rimase nella elegante gola: strinsi così forte che quasi credetti di spezzarla come un giunco palustre nell’estate più torrida. Sussurrai, con ben poca fantasia : “Presa. Porta i miei saluti all’argur. Oppure, scrivi a -------- a --------, se desideri che cose simili non accadano più.”
E tanto quei leziosi discorsi pomeridiani mi erano rimasti nel cervello, come una scheggia di vetro, che volli sfogare un vomitevole riferimento ad essi: “Mia bella artista…” dissi ancora, intanto che le mie mani, contrarie a tali smorfiose attitudini, si serravano al collo di lei, un po’ troppo avide e vendicative. “Ti vedo distesa tra i fiori…” Crack. Un collo rotto, un corpo morto.
Avrei voluto finire! Avrei voluto lasciarla viva! Sono state le mani, stramaledette le mie mani!
Odore di carta vecchia e cera bruciata. Oltre l’arco della grande biblioteca di pietra, la luce fioca delle candele bagna il pavimento sfregiato da una limatura grossolana, data a colpi di piccone. Sul fondo della stanza, su di un altare, un bastoncino d’incenso manda verso il soffitto un rigo di fumo bluastro che si alza come un serpente, confonde i tratti già sbiaditi del grande quadro seminascosto dalle ombre proiettate dalle alte librerie e da un paio di pesanti tende di velluto rosso scuro.
La voce giovanile di A-------- è un sussurro tra le scaffalature stracolme di testi. Mantra arcani, pronunciati da una lingua ancora troppo inesperta. Sta appollaiata come un corvo su quello sgabello troppo alto per la sua statura di poco meno che donna, la schiena curva e il naso affondato in un tomo grosso tre volte la sua testa.
Una cascata di capelli biondi come grano le cade disordinata sulle piccole spalle, sopra le quali agita le mani ed incrocia le dita, emula i gesti occorrenti a realizzare questo o quell’incanto… come sempre senza riuscire.
Istari. Siano essi umani o eldar, sono creature davvero, davvero curiose.
Col solito passo leggero, scavalco una catasta di carte imputridite e impilate alla buona, stringo le mani sulle spalle di A--------. Un brivido le attraversa le spalle e la paralizza mani all’aria, come farebbe una preda nella bocca di un predatore, o un cucciolo tra le fauci della madre.
Accosto le labbra al suo orecchio. Profuma d’incenso e belladonna. «Potrei sorprenderti cento volte allo stesso modo, A--------. Sei sicura di non essere sorda?»
I muscoli sottili e contratti dallo spavento si rilassano con un sospiro. I grandi occhi azzurri bordati da una riga scura di stanchezza, brillano alla luce giallastra delle candele ed un largo sorriso le colora il viso pallido, costellato da efelidi.
«V--------!» mi si attacca addosso, braccia serrate al collo neanche volesse strozzarmi. «Sei tornata!» la sua risata rimbomba e rompe il silenzio della biblioteca.
La stringo a me. «Non pesi neanche la metà di quel libro su cui ti stai spezzando la schiena.» La sollevo dal suo trespolo, diritta come un cero. «Ma esci qualche volta o stai solo qua a prendere umidità?»
Poggia le scarpette sullo sgabello. La tengo per la stretta vita di appena adolescente. Un accenno di seno le rigonfia la tunica color acquamarina che fu della madre. Tasto le curve giovanili dei suoi fianchi, lei mi spinge via, mi tiene a distanza con le braccia tese.
Aggrotta la fronte «E beh!?» Mi guarda, imbronciata, dall’alto in basso e m’appunta l’indice sulla fronte «Guarda che non so come si fa dalle tue parti, ma tra di noi non si fa mica così alle signorine.»
Bella. Crescerai e sarai bellissima. E se pure non fosse, non importa. Per me lo sarai sempre, ovunque andrò, ovunque andrai, ovunque saremo.
Le dita di A-------- spingono ai lati della mia bocca, mi alza gli angoli delle labbra in un sorriso che parrà una smorfia. Mi solleva il labbro superiore e mi scopre i denti.
Scoppia a ridere. «Che mostro sei così!» Mi si butta con la testa sulla spalla, piagnucola, ride e m’avvolge ancora nel tepore delle braccia, le piccole mani morbide sul mio collo. Mi sovrasta, in piedi sullo sgabello che scricchiola e cigola ad ogni suo scoppio ilare.
Sorrido e la tengo aggrappata a me, poggio la fronte contro la sua spalla e nel mare soffice di capelli biondi.
Chiudo gli occhi. Il suo respiro tiepido mi suona all'orecchio, ora quello rapido della risata, ora quello sempre più quieto dell’affetto. Il suo petto mi si spinge contro ed un profondo, tenero, sospiro vibra con la corsa di un brivido che si irradia dalle spalle e raggiunge ogni recesso del mio corpo.
Il tuo profumo. Mi mancherà il tuo profumo. E anche questi silenzi, A--------. Benché nel silenzio sprofonderò, così come tutta quest’esistenza ho vissuto nel silenzio, saranno questi silenzi che-
«Quando torni?» La mano di A-------- affonda tra i miei capelli, gira e rigira una ciocca su un dito. Il suo respiro è lento, grave. Paura, forse ansia o forse…
Mi guarda, ad un palmo dalla mia faccia, gli occhioni azzurri e cupi piantati nel mio. Malinconia.
«Perché me lo chiedi, A--------?» Spezzo il respiro a metà della gola. Non voglio capisca.
Scansa lo sguardo. «Perché tutte le volte che vieni a salutarmi, significa che non ti rivedrò più.»
Nasconde il viso nella mia spalla. «E io ci sto male.» La voce è un sussurro sordo, ovattato nel tessuto pesante del mantello.
La stringo più forte. I suoi capelli sono come un ricco velluto di fattura eldar, sotto i miei palmi induriti che paiono ghiaia del greto di un fiume. Mi basta una mano per carezzarle tutta la testa, tanto è minuta.
«Non te-» Bofonchia, rigida come la cima di una vela gonfiata da un vento in poppa.
Inarco la schiena all’indietro «Non… ?» Le sue mani mi si serrano contro la schiena, si avvinghiano ai capelli, spinge con più forza la testa sulla mia spalla.
Non mi lascia.
«Non te ne andare.» Alza la voce, uno strillo infantile malcelato e attutito nella cappa. Il suo corpicino tremola attaccato al mio, con quella rabbia contenuta che non è più capriccio e quella fermezza che è il segno del passaggio all’età adulta.
La mia bambina, s’è fatta donna.
«Lo sai che devo andare, A--------. Ho degli obblighi.»
Le mie mani scivolano sulla sua vita, tiro indietro le spalle. Lei rimane a capo chino, schiena inarcata e le braccia stese, molli, sorrette dalle mani e delle dita rimaste intrecciate ai miei capelli. Trattiene un singhiozzo.
«Se vado,» A-------- fa cadere le braccia lungo i fianchi « è anche per te.»
Serra i pugni, lo sgabello su cui sta in piedi cigola. « E basta con questa bugia. » Tira su col naso. « Che vuoi possa mai succedermi, chiusa qua dentro? Gli altri non mi guardano nemmeno. E poi… » raccoglie le mani in grembo. Respira così forte che riesco ad immaginare il battito del suo cuore in accelerazione.
Vorrei davvero rimanere con te. «E poi… ? »
I cerchi azzurri delle iridi nel mare arrossato dei suoi occhi mi pugnalano da dietro una trama di capelli biondi scompigliati. Una linea translucida di muco da pianto tocca il disegno a cuore delle labbra semiaperte per respirare.
Le porgo un fazzoletto. «Tieni, pulisciti.»
Si asciuga il labbro, riabbassa lo sguardo. «E poi da quando è morto S--------, le cose sono anche peggio.» Nasalizza, tanto ha pieno il naso. «Sono sempre da sola, qui.» Stringe le narici arrossate nel fazzoletto e soffia.
Resterei qui. «Lo so, A--------. Ma sei ancora troppo giovane… »
O forse nay, ti porterei con me, lontano da qui. « Cerca di essere pazient- »
A-------- si divincola tra le mie mani, scende dallo sgabello con un piccolo balzo. Mi mostra le spalle, china sul grosso tomo su cui l’ho trovata. Sussurra mantra arcani con la stessa lingua inesperta e il naso tappato. Oltre le spalle ricurve, agita le piccole mani e le dita in segni e gesti incomprensibili.
Un bagliore più forte la avvolge, lingue di fiamma le corrono sul tessuto della tunica, gettano un riflesso d’oro tra i capelli color del grano, che si sollevano come fili di un marionettista invisibile. Le fiammelle tutte convergono ad un palmo dal suo capo, scivolano l’una sull’altra e si annodano in un globo luminoso da cui minuscoli archi di fuoco zampillano per rigettarsi nella stessa massa ardente, maculata da macchie rossastre su uno sfondo giallo che brilla tanto da accecare.
L’incanto è riuscito.
«E il mio fazzoletto?» Arretro nella penombra della grande biblioteca di pietra, scavalco la pila di libri ammuffiti, oltre la quale c’è Lei, seduta sul suo sgabello troppo alto, immersa nei suoi studi, furiosa.
«Ormai me l’hai dato e me lo tengo.» Non mi degna d'uno sguardo.
Toccata.
Un po’ me lo merito.
Mi lascio l’arco della biblioteca dietro le spalle. I miei cinque compagni mi attendono attorno ad un tavolaccio zoppo tenuto in precario equilibrio su uno scudo su cui è dipinto uno sbiadito leone bianco in campo rosso. I loro volti, già deformati da trucchi e intrugli alchemici, sono bassi su una mano di poker buttata nel mezzo del tavolo.
Uno scalpiccio di piccoli piedi dietro di me, una pila di libri ammuffiti che precipita a terra, carte che si strappano. A-------- mi strattona per la mano, giù, alla sua altezza, faccia a faccia.
Mi getta le braccia al collo, le labbra premute forte contro l'orecchio «Inyë meltyë.»
Com’è dolce la lingua del mio popolo, quando la pronunci tu.
La stringo a me. Lei mi guarda, gli occhi segnati dal rosso del pianto, la bocca piegata in un sorriso che trema, pur di trattenersi dal piangere di nuovo, di fronte a tutti. Siedo sulle ginocchia, il piccolo viso ovale di lei tra le mani.
Le carezzo entrambe le guance, il pollice segue la traccia invisibile d’un reticolo tra le sue lentiggini. «Inyë yú meltyë, selyenya lissë. Naàmarie, A--------.»
Le lascio un bacio sulla fronte. I suoi occhi giovani, brillano. Mi stringe a sé e svanisce oltre l’arco della grande biblioteca di pietra.
M--------, seduto al tavolo con gli altri, osserva di sottecchi due angoli della coppia di carte servita sul tavolo da gioco, fa una smorfia e solleva lo sguardo. «Sei pronta?»
Annuisco. «Ay.»
«Allora andiamo.» Si alza, tiene la mano piantata sulle carte. «E voi non vi azzardate a mescolare il mazzo. Quando rientreremo, se saremo vivi e vegeti, continueremo a giocare.» Tutti ridono, si sollevano dai sedili nel clangore di armature ed equipaggiamento.
Le armi in cintura tintinnano, ci avviamo all’uscita.
Solo un’ultima benedizione, prima di prendere il largo.
«Facciamo piovere un po’ di disperazione in quelle terre.»
Benedetti siano coloro che camminano nel sentiero di Luugh.
Benedetti siano coloro che portano il puro bacio di Kelthra. Serce ar Sangwa.
***
V-------- appare sotto l’arco della biblioteca, il cappuccio tirato sul capo, un pesante mantello color argento sulle spalle. La pelle chiarissima della sua alta figura è cinta nelle cinghie strette di un’armatura in scaglie argentee che lascia scoperto l’addome e i fianchi, un insolito peccato estetico che… beh posso perdonare.
A-------- le compare dietro, la tira per la mano. Le due sprofondano nella penombra della biblioteca. L’elfa, mia insolita sorella, siede sui talloni e abbraccia la ragazzina. Si sussurrano qualcosa che non riesco a capire.
Strano.
Le facce dei miei quattro compagni, già deformate dagli intrugli di erba rossa, sono chine sulle dieci carte distribuite sul tavolo, una coppia per giocatore.
Un sorriso appare e scompare sul volto di A--------. Almeno una coppia, forse un tris. Punto. I--------, alza gli occhi al cielo. Quella piccola strega sa imbrogliare. E sono sicuro che s’è già messa d’accordo con quell’altro per ripulirmi in qualche modo. S-------- non le guarda nemmeno, ha già messo la posta al centro del tavolo. Lui non gioca nemmeno per il guadagno, gli interessa solo il brivido. E-------- rimescola le monete d’oro con una mano e guarda tutti gli altri. Troppo tranquillo. Perciò, forse, anche lui…
I tacchi di V-------- suonano sul pavimento di pietra, l’unico occhio buono le scivola senza interesse tra le carte e il modesto gruzzolo di pezzi d’oro al centro del tavolaccio.
Sollevo gli angoli delle mie due carte. Due e Sette.
Come al solito, I-------- ha servito una mano che è buona solo per essere tirata nel caminetto.
Intercetto lo sguardo dell’elfa sperso sulla partita. «Sei pronta?»
«Ay.» Annuisce.
«Allora andiamo.» Punto la mano sulle carte, mi alzo «E voi non vi azzardate a mescolare il mazzo. Quando rientreremo, se saremo vivi e vegeti, continueremo a giocare.»
Gli altri ridono. E io ho già vinto. Questi cinque non ricorderebbero neanche come si chiamano se non ci fossi io a ricordarglielo. Altro che M--------, avrei dovuto scegliermi “Mamma” per nome.
Tintinnano le armature e le armi in cintura, le sacche e le bandoliere si riempiono di fiale colme di liquidi alchemici. E-------- già mastica una radice bianca, le pupille strette e nere come due spilli, fra i capelli spettinati.
V-------- ci guarda, seria. «Benché con voi non condivida il sangue, vogliate comunque favorire della mia benedizione, fratelli.» Prende un lungo respiro. Ci stringiamo attorno a lei, che chiude gli occhi e solleva la mano sinistra alla spalla. «Benedetti siano coloro che camminano nel sentiero di Luugh, » pronuncia con solennità «benedetti siano coloro che portano il puro bacio di Kelthra.»
Respira lenta, porta tre dita della mano a toccarsi le labbra. «Serce ar Sangwa.»
A-------- mi guarda, un po’ spaesato, l’espressione di chi non ha capito niente e cerca una risposta da qualcuno informato dei fatti. Bofonchia qualcosa che è un emulo sgraziato delle parole in elfico di V--------.
Davvero molto strano. E le cose strane ed insolite iniziano a diventare troppe.
«Qualunque cosa voglia dire, sorella… siamo con te.» Gli occhi di A--------, I--------, E-------- e S-------- si perdono agli angoli della caverna, imbarazzati, si spostano su di me, elemosinano una spiegazione e fuggono di nuovo altrove.
Si fidano di me, hanno imparato a farlo. Ma…
V-------- mi fissa, un sorriso debole sul viso. Inchina un poco il capo, in cenno di ringraziamento.
Questa volta non ho idea di cosa accadrà.
S-------- me l’aveva detto: “...è tutto troppo semplice. Troppo chiaro, troppo stupido. Che cosa stiamo andando a fare là? E se ci ritrovassimo fregati? E se -quella- ci stesse fregando? Lo sai che non pensa come noi. Chissà cosa le sta girando in testa. Stiamo rischiando il collo, lo sai vero?”
Ci avviamo all’uscita. Zoccoli di cavalli e zampe di lupo lanciati in corsa sotto un cielo viola notturno, carico di nubi che annunciano tempesta. Soffia un vento freddo, goccioline di pioggia mi bagnano la faccia, corriamo controvento.
“Stiamo rischiando il collo, lo sai vero?” La voce graffiata di S-------- mi risuona nelle orecchie. Se un avventato come lui dice una cosa del genere, allora c’è da preoccuparsi.
Di tutta questa storia, ne so poco e nulla. Sì, il piano è chiaro… ma manca qualcosa.
Nut si affaccia tra le nuvole, una falce sottilissima e bianca che getta una luce tremula sulla strada dissestata. Le cappe scure dei miei compagni si confondono tra le ombre lunghe, l’argento del mantello di V-------- è uno squarcio luminoso nel buio, un riflesso del pallore dell’astro notturno.
Sembra quasi voglia attirare l’attenzione su di sé. Non sono tranquillo.
Ci dividiamo. V-------- ci saluta con un gesto silenzioso, si getta al galoppo tra le fronde. Imbocchiamo il percorso opposto, attraverso le gole montane, sproniamo alla frusta le cavalcature e schizziamo veloci come dardi di balestra tra le creature fetide che popolano Arda.
I segugi al nostro seguito latrano, hanno fiutato qualche traccia di viandante. A-------- fischia forte con due dita nella bocca, le bestie abbandonano la scia e tornano in corsa dietro di noi. Calano le celate sui volti, bavagli e maschere vengono legati stretti. I cavalli sbuffano, divorano la via da percorrere metro dopo metro.
Questa notte, nessun ritardo o errore ci verrà concesso. Abbiamo già messo in atto azioni simili, ognuno dei miei conosce il suo ruolo, io conosco il mio ruolo, ogni pezzo della scacchiera è al suo posto.
Eppure, ho come l’impressione di non aver considerato qualcosa.
Caliamo nella piana di Ilkorin, Nut appare e scompare tra le nubi che si infittiscono. Le torce della cinta muraria del villaggio sono puntini rossi e gialli nel buio. Il vento stormisce tra i campi abbandonati al riposo serale e gli alberi, sparute macchie nere nel verde smeraldo dei prati.
Un brivido mi corre sulla spina dorsale. « Attenti ora. »
Tiriamo le briglie, le cavalcature rallentano al trotto e poi al passo. Superiamo la strozzatura del piccolo guado che taglia i domini di Rotiniel da quelli di Valinor. Ci accostiamo all’ombra dell’alta falesia a sud est del villaggio. Questo è il punto dove V-------- ci ha detto di appostarci.
Le trappole sono state predisposte su ogni via d’accesso alla vallata. Le navi per la fuga già ormeggiate sulla costa, due barche lunghe camuffate sotto un cappotto di felci e rami raccolti nel sottobosco della foresta sacra ai Sindar.
I-------- rigira nella mano un pendaglio con una conchiglia, sussurra una preghiera nel pugno stretto sotto il naso. Una soffusa luce azzurra avvolge le piastre del guanto d’arme, brevi fiamme spettrali danzano sul profilo della forca da guerra agganciata alla sella. E-------- tira il cantino del liuto, il manico dello strumento tempestato dal fioco pulsare delle rune. Sbuffa un fumo dolciastro dalla labbra sbruciacchiate, strette su un mozzicone di raya.
S-------- mi gira attorno a dorso di lupo, il lungo coltello ricurvo già sguainato. « E ora? »
« Aspettiamo il segnale. » Metto mano alla cintura, scorro con le dita sul metallo dei pugnali da lancio, impugno l’elsa foderata in cuoio del mio coltello.
Già, ma quale segnale? Tutto quello che so è che V-------- ha fatto un patto di qualche genere con i Drow. Il casato Jaerle ha detto. E nient’altro.
Elfi. Danno per scontato che a tutte le altre razze gliene freghi qualcosa delle loro contorte contese e dei loro pulciosi giochi di potere. Quando capiranno che-
Il silenzio della piana è rotto dallo squillo metallico di una campana. A-------- sprona il cavallo, raggiunge l’apice della bassa collina a sud, mette l’occhio nel cannocchiale.
« Fuoco! » indica a nord ovest, oltre le sparute luci di Ilkorin. Un denso fumo grigio si solleva dalla posizione del forte che l’alleanza elfica ha eretto per proteggere il villaggio dalla minaccia Drow, sul limitare occidentale del massiccio che ne copre le spalle.
E’ cominciata. Le mura di Ilkorin si accedono con una linea gialla di fuoco. La guardia è sveglia, si prepara ad un assalto frontale.
Le armi dell’alleanza saranno qui in men che non si dica.
Sguaino la lama spessa del coltello da caccia, lo roteo sulla testa. « Preparatevi fratelli! » Trotto avanti la linea disordinata dei miei compagni. Si tirano in gola infusi alchemici come un dannato ubriacone di Tortuga farebbe col grog durante una festa. E-------- accenna un adagio, pizzicato sulle note basse del liuto, ripetitivo, a tempo col cuore che accelera in petto e in gola. S-------- scarta in direzione delle trappole posizionate sul percorso, si acquatta con la sua bestia nell’erba alta. A-------- libera la pesante ascia dalle cinghie della sella, la lama brunita ondeggia a filo con gli steli del prato.
Schiaccio tra i denti una manciata di bacche azzurre. Il sapore amaro mi riempie la bocca e un formicolio tiepido rilassa i muscoli tesi.
La campana d’allarme continua a battere, come un fabbro impazzito che abbia preso a picchiare sull’incudine nel bel mezzo della notte.
Un doppio fischio acuto. Luci tremolanti corrono oltre la linea d’argento del guado, si avvicinano.
S-------- emerge tra le ombre. «Arrivano! » si getta in corsa dietro la linea segnata da A--------, che fa roteare l’ascia col polso e solleva la pesante lama all’altezza delle spalle. Il ritmo dalle corde di E-------- aumenta in un andante, andante con moto, presto.
Nut imbianca la colonna di mantelli ceruli che squarcia il cupo nero della foresta, irrompe negli alti schizzi del torrente, si lancia a passo di carica in direzione dell’ombra scura della falesia, verso di noi.
Ancora pochi metri e ci saranno addosso.
I legacci delle trappole scattano con suoni sordi, le reti si sollevano sulle ginocchia della furiosa schiera rotinrim, le avvolgono. La prima fila di destrieri si schianta muso a terra, i cavalieri più fortunati volano disarcionati un metro e mezzo con la faccia nel fango. Altri rimangono appesi come vermi alle staffe, con qualche quintale di bestia a schiacciargli e rompergli le gambe.
La schiera si paralizza in un nugolo di ordini urlati in lingua elfica, le retrovie avanzano lente, smontano gli ausiliari, coltello alla mano, per liberare le bestie e i propri compagni dalla morsa dei lacci disseminati nel collo di bottiglia che li separa da noi. Si libereranno presto.
Adesso V--------. Fai quello che devi ora o ti giuro… che ovunque sia l’inferno in cui finiremo, ti verrò a cercare anche da là. E che l’Oscuro mi sia testimone, ti farò soffrire cento volte la mia pena.
E-------- mi s’accosta: « Non dovremmo toglierci di mezzo ora? » Gli trema la voce.
« Dobbiamo aspettare l’esplos- »
Un manipolo di rotinrim si stacca dal corpo della colonna, sperona i cavalli, accelera sulla strada infangata che corre verso Ilkorin. Lo stendardo dello stato maggiore garrisce al seguito del gruppo, le armi impugnate dai suoi cavalieri brillano sotto Nut, sempre più vicine a noi.
Suona l’ordine d’attacco.
Ci hanno visti.
Urlo. «Pronti all’impatto!»
Si sollevano gli scudi. La macchia azzurra rotinrim è avvolta dall’ombra della falesia, i volti affinati degli elfi si distinguono sotto i loro elmi, attraversano nuvole di condensa notturna e fiato delle loro stremate cavalcature. Stringo i denti.
Ora V--------. Fai brillare quella dannata bomba.
I volti degli incursori sono marcati da reticoli di vene gonfie di furore omicida.
Un boato spacca in due la valle. Sovrasta il clangore delle armature rotinrim, il calpestio degli zoccoli nel fango, gli ordini urlati, ammutolisce la musica di E--------. I cavalli del manipolo si inchiodano al suolo, barcollano come ubriachi. Gli elfi, tutti, spalancano la bocca e sgranano gli occhi, muso all’insù.
Lingue di un denso fumo nero offuscano il cielo già buio, una cupola verdastra avvolge Ilkorin, fiamme alte la divorano dall’interno. Il gigantesco fungo di vapori venefici torreggia sul villaggio, le narici bruciano ed un odore acre riempie l’aria. La nube si alza ancora, invade l’orizzonte fin dove riesca a vedere.
La pioviggine trasportata dal vento si schianta sui volti sbigottiti dei soldati dell’alleanza. Il tuono fa eco all’esplosione e le leggere gocce si gonfiano, aumentano, un muro d’acqua picchia come ghiaia sulle armature, gli scudi, le armi sguainate ma basse, sulla linea del terreno.
Una pioggia acida cade dalle nubi gravide del veleno di V--------, il nostro veleno ustiona il cuore di Valinor, il cuore dell’alleanza, il cuore del Doriath.
E sia una cicatrice per ogni elfo che cammini su questa terra.
Ci ritiriamo.
***
Un mucchio di carte disordinate sono avvolte in un drappo di tessuto rosso scuro, affossate in una cassa sprofondata nella pietra di un sepolcro aperto e riempito fino all’orlo di testi rilegati in pelle scura, sul cui coperchio campeggia il simbolo “ ---- ” inciso con un punteruolo.
Qui dorme la Viverna e col suo sonno, termina ogni inganno.
Con essa, dormono molti nomi e molte vite:
Malgaste, col braccio paralizzato da una vita ingiusta e traboccante di rancore.
Armida Henduracina, cieca ma in possesso della Visione Adamantina.
Dzeo Tauriho, che dietro il sorriso celava un grande sacrificio.
Galena Elenion, la cui vita è stata rifiuto, dissipazione e ira.
Sarazm Kanishka, col tridente tatuato in volto e così prossima alla morte.
Hravie Umaar-Rahio, a cui il bacio di Kelthra tolse ogni parola e donò l’odio.
Astreni Cucua, la colomba, voce dell’Inquisizione e ultima dei Machtar Yaren.
Hísilómë, Nebbia, che molto dolore conobbe, pur di trovare la Verità. Estele Far’marillie, madre e sposa, senza pace, che allo scudo preferì il pugnale.
Benedetta sia colei che cammina nel sentiero di Luugh.
Benedetta sia colei che porta il puro bacio di Kelthra.
Why Would you Settle for Less when you can have More? Do not let other Authors Fool you with Empty Marketing Keywords. FLATBOOTS is what you Deserve. Built to last, Built from Scratch, Nothing Less.