Qui i giocatori di The Miracle lasciano imprese, poesie, narrare eventi e grandi avventure avvenute e in svolgimento su Ardania. Linguaggio strettamente ruolistico.
In un lento vorticare l'oscurità avvolgeva Lidughat e il ritmo del suo respiro affannato sembrava un martello che colpiva stanco e rassegnato contro le sbarre indistinte di una gabbia.
Lentamente e con molta fatica dischiuse le palpebre e dinanzi a lei vide stagliarsi la cresta di una grande duna. Cominciò a sentire la sabbia scivolarle tra le dita mentre affondava lievemente, e la mente, ancora affaticata, tentava di ridestarsi dal torpore che la pervadeva.
Lo sguardo vagò a lungo tra l'orizzonte del deserto e il cielo che incombeva grigio e cupo su di lei. Un tenue riverbero rossastro attraversava qualcosa a metà tra un immenso banco di nebbia e una coltre di nubi smorte. In quello strano crepuscolo sentì mancare il respiro, accarezzata da un vento stranamente umido e pesante che portava con se un profumo dolciastro, quasi nauseante. Con grande sforzo si mise in piedi sorretta da un unico bisogno: doveva scoprire cosa fosse celato al suo sguardo.
Così cominciò a camminare, un passo incerto dopo l'altro guidata dal ritmo del suo respiro. Man mano che scalava la duna sabbiosa alla stanchezza delle gambe faceva eco la chiarezza nella sua mente, come se quell'ascesa la stesse davvero destando da quello che le era sembrato uno stato di onirica incoscienza.
Una volta giunta in cima, dalla cresta sabbiosa potè scorgere in lontananza delle enormi montagne che si stagliavano imponenti e solitarie a scardinare la linearità dell'orizzonte.
“Kamikush”. Sentì la sua voce echeggiarle nella mente, “voltati, presto”. Seguendo quell'imperativo sfocato potè scorgere in basso, a qualche centinaio di metri, un'oasi.
In quel momento si accorse di avere la gola riarsa dalla sete, le labbra spaccate le bruciavano. Così si mise in cammino e il lento incedere dei suoi passi si fece via via più rapido e sicuro, il respiro sembrava correre libero e forte, rinfrancato da quella nuova determinazione.
Man mano che si avvicinava però l'aria sembrava farsi più pesante, il cielo più incombente su di lei.
Quella che in lontananza le era sembrata una macchia lussureggiante si rivelò essere un intricato groviglio di rovi secchi e contorti. Le palme che circondavano la pozza d'acqua melmosa erano dei simulacri sofferenti e agonizzanti. Tutto attorno a lei sembrava afflitto da una purulenta decadenza.
Fu in quel momento che Lidughat avvertì come un lampo, un dardo che accecò la sua mente e che la fece piegare dal dolore. Cadde sulle ginocchia, le mani sul viso a coprire un urlo muto, poi la sofferenza parve sfumare e le sembrò di restare in quella posizione per un tempo indefinito, ipnotizzata dal tremore delle sue mani.
Improvvisamente però, udì di nuovo quella voce. “Alzati, vieni da me”.
A poche decine di passi da lei, dando le spalle a una piccola cascata, potè vedere una sagoma scura, una persona avvolta in un lungo velo il cui volto era celato.
“Chi sei?” ebbe la forza di pronunciare e si accorse che la sua voce pareva roca e stanca, come se avesse urlato a lungo, e sentì il sapore metallico del suo stesso sangue.
“Avvicinati...” Rispose la figura, la stessa voce che sembrò parlare alla sua mente poco prima. Una donna, qualcuno di familiare forse, ma sfocato e distorto.
Come ipnotizzata da quella voce Lidughat si mise in piedi e cominciò a camminare verso la figura incappucciata. Ad ogni passo l'aria sembrava farsi più fredda, tutto attorno a lei cominciò a vorticare e nella mente si susseguirono immagini terribili, ricordi che aveva tentato di seppellire nei recessi più oscuri della sua anima.
Strinse le palpebre sofferente, il riecheggiare di girda e lamenti la scuotevano e per il dolore le lacrime cominciarono a rigarle il viso. Eppure non poteva smettere di avanzare nonostante vi si opponesse con tutte le forze.
Cercò allora di distogliere lo sguardo, ma a nulla servì, era stata catapultata in un incubo fatto di ombre e dolore. “Perché! perché mi fai questo!?” Disse con un filo di voce, a denti stretti, non ancora rassegnata.
“Dimenticare non ti è concesso, non puoi, lo devi a te stessa, lo devi a lei”.
“A cosa serve? Sono tutti morti ormai”.
Giunta al cospetto di quella figura Lidughat dovette dare fondo a tutte le sue energie per non crollare e soccombere al senso di disperazione che le tempestava la mente di colpi.
Abbassò lo sguardo sulle sue mani, i palmi dischiusi e lordi di sangue. Ormai tutto quello che aveva nascosto, tutto lo strazio dal quale aveva tentato di fuggire, di separarsi, era esploso in lei e le riempiva i polmoni di fiamme e le accecava la mente con un fischio assordante.
Poi sentì la rabbia crescere in lei, strinse con forza i pugni, la bocca distorta in un ghigno, e levò lo sguardo sulla donna che, immobile, sembrava continuare a fissarla.
“Ora basta” disse in un sussurro carico d'odio, “lasciami in pace!”
Con un balzo fu addosso alla creatura ammantata, cercò di colpirla ma era come fosse fatta di fumo evanescente, come se sotto quel velo non ci fosse che aria. Si avvinghiò allora con tutte le sue forze al velo tirando con ferocia verso il basso. “Maledetta!”
Il velo cadde lentamente, come non avesse peso, l'aria si era fatta improvvisamente calma e inerte. Un silenzio irreale circondava Lidughat rotto solo dal suo respiro, spezzato ormai in mille singhiozzi frenetici.
Si rese conto di essere crollata sulle ginocchia. Tremante per il senso di disperazione fissava la creatura rivelata: un enorme serpente la cui livrea ricordava la sabbia del deserto illuminata dall'argentea luce della luna la fissava, la costringeva a guardarlo mentre lei si sentiva violata dall'esasperante calma di quello sguardo.
“Non puoi fuggire” le disse il serpente “Non devi...”
“Perché?” ebbe la forza di dire in un sussurro, stremata, vinta da tutte le sue angosce.
“Perché è te stessa che stai guardando”.
In quel momento tutto sembrò esplodere in un immenso lampo, e in un istante le parve di vedere qualcuno che aveva cercato di dimenticare assieme al suo dolore, qualcuno che, scoprì con sgomento, aveva lasciato un vuoto enrome e profondo dentro il suo cuore.
…
Dischiuse le palpebre sul soffitto di legno della sua stanza, affannava vistosamente, la pelle imperlata di sudore freddo. Lentamente riacquistò coscienza di se e si rigirò su un fianco, le mani a coprirle il viso. “Cazzo!” ebbe la forza di sibilare e mentre tentava di rimettersi in piedi le giunse alla mente una voce, un ricordo che rievocava parole dimenticate da tempo. E quella voce la inondò di una profonda malinconia.
Quelle parole la fecero sorridere amaramente perché, ricordava, segnarono il preludio della sua più grande perdita.
“Accetta quello che è stato, scappare non ti servirà, non sei mai scappata”.
Soffiò distrattamente il fumo. Il piccolo involto era quasi terminato e il profumo delle foglie di raya contribuiva a darle una sensazione di tepore.
Aveva usato il manto logoro e sbrecciato come fosse una stuoia, la schiena poggiata ai resti di un tratto di muro appartenuto chissa a quale vecchio edificio. L'aria afosa aveva lasciato il posto al freddo tipico delle notti tremecciane e il muro contro il quale poggiava la schiena conservava ancora il ricordo del sole cocente che, mai sazio, lo osservava durante il giorno e per questo era tiepido al tocco.
Erano trascorse diverse ore e Lidughat continuava a tenere lo sguardo levato ad osservare il cielo avvolta in una coltre di ricordi che acuivano in lei un languido senso di nostalgia e davano fondo a tutte le sue incertezze. Distrattamente mosse una mano seguendo la trama di uno dei rammendi grossolani del suo mantello e afferrò una manciata di datteri. Perché, Dea, perché son qui? E' chiaro che mi hai condotta tra queste mura perché potessi abituarmi , “perché il deserto non è più oasi confortante, ma una tomba gelida senza il tuo..”
Si interruppe, la gola improvvisamente secca, poi rise di se stessa e degli scherzi che la memoria si divertiva a giocarle. Eppure aveva imparato che nella voce dei ricordi poteva nascondersi il volere divino. Che stia esitando per codardia? Spense ciò che rimaneva delle foglie di raya sulla sabbia e si alzò decisa a cercare di dormire almeno qualche ora su un giaciglio decente. In realtà sapeva in cuor suo che voleva semplicemente arrestare quel flusso di pensieri, quella realizzazione che, ne era certa, sarebbe giunta prima o poi. Perché non dovrei temporeggiare per una volta?
Raccolse il mantello e lo drappeggiò sul braccio scuotendolo con l'altra mano per cercare di liberarlo dalla sabbia. E fu in quel momento che la sua attenzione venne richiamata da un movimento improvviso. Alzando lo sguardo potè vedere in uno spicchio di cielo un fascio di luce argentea che si spostava lungo quella porzione di volta celeste. Una stella cadente.
Restò immobile e dopo un lungo momento chinò il capo, consapevole ormai di ciò che stava accadendo. Restava solo qualche granello nella clessidra e ciò che il suo corpo faticava ad accettare era ormai chiaro nella sua mente. Se questo è davvero un tuo segno, non avresti potuto essere più esplicita, mia signora.
Tenne lo sguardo fisso verso nord, verso le alte creste dei monti che spuntavano oltre la linea di visuale delle mura cittadine. Dunque l'attesa è finita, disse a se stessa, è ora di affrontare il deserto.
Impiegò due giorni per raggiungere il Kamikush. La sabbia dorata, fine e morbida, lasciò il posto ad un terreno scuro, roccioso dove il vento sollevava cumuli di polvere capaci di soffocare.
Lidughat soppesò uno degli otri che portava a tracolla e decise che poteva concedersi un sorso d'acqua prima di riprendere il cammino.
L'aria cominciava a raffreddarsi e il tramonto spandeva ovunque la sua luce insanguinata mentre le ombre si allungavano sempre più. Più saliva e più sentiva qualcosa dentro contorcersi, e ogni passo diveniva più pesante, più doloroso andare avanti.
Superò un costone roccioso che la costrinse a inerpicarsi lungo un sentiero ripido e pieno di detriti, come se un enorme masso fosse esploso e i suoi frammenti si fossero sparsi tutto intorno.
Dopo l'ultima, stretta svolta Lidughat intravide una piccola spianata che accoglieva una serie di piccoli tumuli, ciascuno contrassegnato da una pietra piatta e levigata grande all'incirca due volte una mano. Restò a lungo a contemplare quelle rudimentali sepolture mentre a poco a poco il tremito svaniva assieme al nodo che le attanagliava la gola.
Era come se il suo corpo stesse reagendo di conseguenza a quella calma desolata.
Ed era proprio ciò che provava, un'immensa e solitaria desolazione. Ecco tutto ciò che mi rimane di voi. Si chinò e poggiò la mano sul terreno. Mi dispiace, ho cercato di dimenticarvi.
Spese alcuni istanti ad osservare il palmo dischiuso, sporco di quel terriccio polveroso. E ho permesso a tutto questo di sopraffarmi. Stappò l'otre ormai vuota per due terzi e ne versò il contenuto. E' vero, avevo torto. E alla fine ho capito il vero significato di questa stupida tradizione.
Restò diversi minuti seduta sul terreno. Illuminata dalla luce di Nut cominciava a sentire dentro di se un barlume di calore. Come se in fondo a quell'oceano di tristezza e rassegnazione cominciasse a germogliare l'accettazione e, con essa, un voto che prometteva pace.
Eppure sapeva che non era abbastanza. C'era un ultimo passo da compiere, il più importante, e un'ultima persona da salutare.
Con grande sforzo si alzò e dopo aver rivolto un ultimo sguardo al piccolo cimitero si incamminò verso un enorme blocco di roccia vulcanica che delimitava uno dei lati della spianata.
Impiegò alcuni minuti per aggirarlo e per individuare una grossa crepa scavata a colpi di piccone e modellata come fosse una nicchia.
Tornò alla mente con lugubri rintocchi il ricordo dei colpi che con cieca disperazione aveva inferto alla roccia incurante delle schegge che le ferivano le mani e il viso, che facevano da eco al dolore che provava.
Poi chiuse gli occhi rievocando alcune immagini fugaci come lampi, un corpo avvolto in un sudario tenuto tra le braccia, il tessuto bagnato dalle lacrime mentre si inginocchiava.
Scosse la testa e con un profondo respiro si chinò ad osservare nonostante per un istante avesse temuto di essere sopraffata.
Il tempo aveva appiattito il tumulo sulla sommità del quale giaceva una rosa del deserto e, ai suoi piedi, intravvide un piccolo laccio di cuoio.
Con delicatezza lo sollevò ed estrasse dal terriccio un bracciale che teneva insieme dei piccoli cristalli. Un dono, capì, che si era pentita di aver restituito.
Sentiva le lacrime rigarle il viso e nonostante tutto ebbe la forza di sorridere mentre si accovacciava contro la roccia abbracciandosi le ginocchia. Alla fine sono tornata, visto? E se vorrai resterò qui per un po'. Dopo tutto ne ho di cose da raccontare.
In quel momento le tornò alla mente una ballata. Parlava di un uomo che giace sulla tomba dell'amata e, rinnovando il suo voto d'amore decide di attendere lì, sulla fredda pietra, la morte che li avrebbe finalmente riuniti.
Lidughat con un sospiro si sollevò e poggiò la testa contro la roccia.
E tenendo tra le mani il piccolo bracciale cominciò a raccontare.
Sedeva a gambe incrociate sul terreno morbido. Tra gli steli d'erba poteva ancora riuscire a distinguere qui e la tenui macchie di colore, gruppi di fiori che piegavano il capo accarezzati dal vento.
A pochi passi da lei era visibile la riva di un piccolo lago dalla forma tondeggiante, stranamente regolare, il cui diametro non superava il quarto di lega. Tutto attorno agili pioppi bianchi e grossi abeti incorniciavano il panorama come fossero una corona, i tronchi ricordavano quasi le colonne disposte a semicerchio in un'esedra.
Il cielo era velato da pesanti nubi che oscuravano parzialmente la luce delle Belenil e rendevano praticamente impossibile individuare i Fuochi lontani. Tuttavia quasi specularmente la coltre di nubi si diradava in un ampio squarcio dai contorni sfumati all'interno del quale brillava eterea Nut diffondendo nell'aria un tenue barlume argenteo.
Lo sguardo di Lidughat si spostò verso il basso, come volesse seguire la luce della luna che si tuffava all'interno delle placide acque del lago, come lo sguardo di una dama incontra uno specchio. Provò un improvviso senso di vertigine, come se una parte di lei fosse saltata assieme al balenio sidereo del pianeta che discendeva a riflettere la propria immagine sulla superficie nero onice del lago. Dall'interno di una piccola ciotola di argilla cotta emergevano lingue di fumo biancastro che portavano con se il profumo intenso e lievemente acre della resina al quale si aggiungeva l'aroma denso e quasi stordente dei petali del fiore degli spiriti.
Scrutando il riflesso della luna distorcersi con le increspature dell'acqua Lidughat pensava a ciò che aveva vissuto, ai lunghi e tumultuosi giorni che l'avevano condotta li in contemplativa adorazione di un riflesso luminoso.
Ripensava alla notte dell'assalto al tempio di Danu, rivedeva l'esercito schierato e una moltitudine di stendardi che garrivano al vento. “Tanto fieri quanto egoisti.” Vedeva i volti contratti nell'impeto della lotta, lo sguardo febbrile di chi, ferito gravemente, sentiva la vita scivolare via verso l'oblio.
“Quanti di voi hanno dato la vita per un vero ideale? Quanti hanno sofferto nel nome della lealtà al demone della pragmatica convenienza? Troppi nemici asserragliati in quella piana, troppi condottieri piegati nel considerare ciò che andava fatto come mero calcolo, una mossa dopo l'altra sullo scacchiere del mondo degli uomini.” Nella sua mente riecheggiava il cupo rombo delle cannonate che dilaniavano corpi, il fischio assordante che penetrava nella testa provocando un dolore lancinante. “Eppure ciò che ho sentito era in qualche misura ardore, disciplina, coraggio, e nonostante questo tutto sembrava mal riposto, tutto appareva fittizio”.
Ricordava la tronfia voce di uomini e donne impettiti che tuonavano ordini misti a imprecazioni, disposizioni che spesso contrastavano tra loro, alimentando la confusione e provocando inutili morti.
“E non ho escluso me stessa da questo biasimo, anche io ho agito e agisco abbracciando questo vuoto. L'inganno degli inganni. Indispensabile per poter continuare a lottare.
Eppure ho sempre rinnegato questo mondo, l'ho sempre odiato finché non si è dimostrato imprescindibile, drammaticamente necessario. In quei frangenti, in cui tutti eravamo impegnati a lottare ho odiato me stessa per aver dimenticato. Dimenticato che chi ha perso tutto non è un martire ma un privilegiato. Quell'odio non deve svanire, non deve dissolversi mai perché rappresenta la distanza tangibile tra quello che sono costretta a fare e ciò che non sono disposta a diventare.
Così ho semsso di fare calcoli, ho combattuto e ho sanguinato per un'unica ragione. Per salvare. Per frapporre uno scudo tra il baratro e chi ha ancora qualcosa da rimpiangere, da perdere. Ho frapposto me stessa tra i bersagli del mio disprezzo, del mio odio, quelle stesse persone che non esiterebbero a piantarmi una lama tra le scapole se solo ne avessero l'occasione e i nemici della fede. Tutto questo ti compiace, mia dea? Ti soddisfa sapere che ho fatto tutto questo innanzitutto per me stessa? Io, che avrei barattato mille volte la vita in cambio della salvezza di quanti ho amato? E' per questo che mi hai benedetta? E' per questo che hai colpito il mio corpo acuendo la mia percezione di te, delle tue energie? Vuoi premiare questo egoismo e arrivare a sfiorare ciò che custodisco e che fa di me quel che sono? Ebbene qual è lo scopo di tutto questo? Sento il tuo sguardo su di me, ma mi chiedo se questo avviene perché sono degna di te o perché vuoi che lo diventi. Danu, devo cambiare per te?”
Si alzò lentamente e si incamminò verso la riva arrestando i suoi passi sulla battigia, lo sguardo vacuamente perso e teso verso un orizzonte invisibile.
Portò una mano poco oltre la clavicola sinistra e tirò via la fibula permettendo all'ampio chitone di scivolarle lungo i fianchi fino ad adagiarsi ai suoi piedi.
La pelle di Lidughat si confondeva scura in quel buio ammantato e quando la luce della luna incontrò il suo corpo rivelò una moltitudine di linee, spirali, punti spigolosi che andavano a formare un reticolo di glifi, un caos calmo che brillava tenue alimentato dalla luce di Nut.
Aveva impiegato diversi giorni per ottenere la giusta miscela di pigmento e polvere di argento.
E aveva faticato non poco nel cercare di riportare alla mente ciò che aveva visto quando il suo spirito viaggiava etereo nella notte del sogno.
“Ho infinite domande per te, Signora. Guidami lungo questo tuo sentiero. Aiuta i miei occhi nel rischiarare il buio che li avvolge. Conduci il mio incerto incespicare verso la tua voce.”
Lo sguardo quasi ipnotizzato dal lieve ondeggiare dell'immagine di Nut sulla superficie del lago, si diresse verso il basso nel cercare una traccia del proprio riflesso.
Quando lo trovò trasalì per un istante poiché le parve di vedere qualcun altro nell'oscuro specchio liquido.
“Forse, dopo tutto, ha poca importanza la mia incertezza, così come hanno poca importanza le domande che vorrei porti”.
Ad occhi chiusi alzò la testa e cominciò a muovere lentamente i suoi passi verso il centro del lago. Teneva le braccia distese verso il basso e leggermente divaricate, la luce lunare rifletteva attraverso il pigmento metallico che le riempiva il corpo di mute preghiere prive di parole.
Venne colta da un improvviso impeto di consapevolezza nel momento in cui immerse completamente le mani in acqua. La mente rischiarata da un pensiero che sapeva essere suo ma che sembrava riecheggiare la voce di qualcun altro, una voce lontana ma allo stesso tempo chiara e limpida.
“Ciò che conta davvero per capire chi sono è non smettere mai di cercarti, di parlare”
L'acqua le lambiva la vita e saliva sempre più ad ogni passo.
“Con te”
Dischiuse gli occhi rivolti verso il cielo incontrando lo sguardo di Nut e, spiccando un piccolo balzo, facendo leva con le braccia, si immerse completamente. L'immagine riflessa della luna andò in mille pezzi sotto lo sciabordio del suo tuffo.
Il cielo attorno al villaggio si faceva sempre più scuro, e sempre più pesante la coltre di presagi di morte. O di rinascita, come dicono quei pazzi che osano chiamare “dono” il destino più crudele che un essere umano possa subire. Con il pericolo avanzava la paura e sul volto degli abitanti delle gole cominciai a leggere un senso di profondo smarrimento. Chi ha deciso di dimorare a Darkhold ha compiuto una scelta coraggiosa, ha abbracciato una vita dura e priva di agi nel nome di un sogno di libertà. Eppure più di questo mi ha sempre impressionato il modo in cui questi arcigni minatori e le loro famiglie abbiano sempre saputo ridere delle sventure.
Quel riso sincero e un pizzico arrogante però, stava ormai svanendo, il loro spirito fiaccato.
Gli abitanti di Darkhold avevano bisogno di qualcuno che potesse assisterli nei loro bisogni spirituali, perché anche un animo forte ed avvezzo alle difficoltà è destinato a crollare senza la protezione dei Giusti. Così decisi che Darkhold dovesse avere un luogo di culto essendo ormai troppo pericolosa la strada verso il grande tempio di Danu. Un tempio piccolo e umile ma ambizioso nella sfida che intendeva lanciare, Darkhold resisterà dovesse fronteggiare da sola la tempesta.
I lavori di allestimento durarono poco, dopotutto non vennero usati materiali da costruzione: niente mattoni o pietre, il legname solo per l'arredo. Nulla più di una tenda da campo eppure già vedermi al lavoro sembrò rinvigorire gli abitanti delle gole, e questo mi rese solo più determinata.
Ciò nonostante era stato compiuto solo il primo passo, quello più semplice. Perché quel posto potesse assurgere al suo scopo occorrevano due cose: che venisse consacrato e che potesse ospitare qualcuno disposto ad occuparsi della cura d'anime quotidianamente.
Fui portata ad escludere quasi sin da subito l'idea di rivolgermi ad Hammerheim. Troppo tronfi nei loro cerimoniali, e troppo tesi i rapporti.
Pensai anche ai Cavalieri dell'Alba, ma troppe volte ai miei occhi è come se avessero dato prova di essere inclini solo nelle intenzioni a mettersi in gioco per chi non conta nulla, dopo tutto li posso annoverare tra i tanti che sono stati abili a dar fiato alla bocca millantando aiuti e presenza per gli abitanti di Darkhold. Parole al vento, come al solito.
Troppo pulite le loro mani per affondare nella polvere delle cave, troppo succubi di manti dal colore differente dico io. E poi, l'unico tra le loro fila ad aver dimostrato un sincero interesse per la nostra causa fu padre Theodor, ma di lui ho perso traccia da tempo.
Così decisi di seguire un sentiero solitario, di affidarmi all'unica persona che abbia visto davvero interessata alle sorti patite dagli umili e quest'uomo infatti calca la strada stellata della Dea.
Incontrai Arn ad Hammerheim e subito dimostrò empatia nei confronti della mia richiesta di aiuto.
Acconsentì a visitare Darkhold e la cappella senza la minima esitazione e sin da subito manifestò il suo desiderio di aiutarmi in questa impresa.
Chiesi così ad Arn di officiare una cerimonia affinché la struttura venisse consacrata e potesse chiamarsi a buon diritto luogo di culto, in più, per quanto riguarda il secondo obiettivo, gli chiesi di redigere una lettera che avrei consegnato al tempio di Danu affinché fosse concessa a Darkhold una adepta che fosse disposta a prendersi cura dei fedeli delle cave.
La cerimonia fu breve ma molto significativa, e il messaggio di speranza portato da Arn trovò maggior forza grazie ad un dono inaspettato: un grande dipinto che mostrava la Dea che levava lo scudo a protezione delle cave di Darkhold, rivolgendolo verso il male proveniente da Deanad.
Un simbolo che le genti delle cave subito presero a cuore in quanto non solo foriero di speranza ma anche di ispirazione. A resistere, e a combattere contro ogni avversità.
E non passò molto tempo infatti prima che queste ci mettessero alla prova.
Un giorno alcuni abitanti richiamarono allarmati la mia attenzione, la cappella era stata saccheggiata, il mobilo trafugato, i tappeti deturpati ma, soprattutto, il dipinto era sparito.
Era quella una prova, ne sono certa, la Dea voleva mettere saggiare la nostra resilienza oltre che la nostra fede. Così non mi diedi per vinta, certa che Arn avrebbe risposto alla nostra richiesta di aiuto.
E così fu. La cappella venne riallestita e un nuovo dipinto, simile a quello precedente trovò nuovamente posto e questa volta, per iniziativa degli stessi minatori ci fu sempre qualcuno a vegliare su quel nostro simbolo di speranza. E finché la cappella non avesse accolto un sacerdote disposto a prendersene cura essa sarebbe stata protetta con pale e picconi.
Nel frattempo il male proveniente da Deanad si faceva sempre più incombente su Darkhold.
Creature terrificanti, enormi abomini di carne evocati attraverso oscuri rituali macchiati di sangue si facevano sempre più vicini e promettevano la fine.
Per questo motivo decisi di recarmi celermente al grande tempio di Danu e con me decisero di venire alcuni compagni. La scalinata che conduceva in cima alla rupe mi sembrava infinita e ad ogni passo la mia forza di volontà era come se venisse messa alla prova. Da quando mi hai reclamata a te, mia Dea, un senso di smarrimento ha cominciato a insinuarsi tra le crepe delle mie sicurezze e sempre più mi sento come una naufraga perduta nell'immensità dell'oceano.
Spero che tutto questo possa condurmi verso una nuova me, una donna sempre più in comunione con i tuoi desideri, con le tue aspirazioni.
Il colloquio con i sacerdoti dette i suoi frutti ma, per loro stessa ammissione, il messaggio vergato dalla mano di Arn fu il vero elemento decisivo che convinse il tempio a chiedere un volontario per le gole di Darkhold.
E questo, grazie alla Dea, non tardò a giungere.
Alaisia fugò ogni mio dubbio al primo sguardo. Una ragazza alta dalla corporatura imponente ma dal sorriso gentile. Lo sguardo vivace e penetrante e un portamento degno di un cavaliere, uno vero.
Alaisia si dimostrò subito determinata a cominciare col suo nuovo incarico, così ci incamminammo verso le gole entrambe appiedate, circondate dai miei compagni, sempre all'erta e pronti a sguainare la spada. Quella passeggiata ha assunto un significato inaspettato, è stata per me come un simbolo rivelato definitivamente. Alaisia mi chiedeva del villaggio e dei suoi abitanti con quel suo fare pacato ma in qualche modo pungente e avanzavamo lentamente mentre a pohce leghe di distanza l'abisso si muoveva minaccioso. Ebbene, quel cammino, è come se mi avesse mostrato definitivamente che le persone che decidono di impegnarsi per Darkhold sono anche quelle più adatte a farlo, a difenderne l'idea e la causa. Tutte le persone che davvero si sono prodigate coi fatti, e non con vane e semplici parole, hanno dimostrato di conservare in se quasi una fonte di purezza.
E' come se mi fosse divenuto definitivamente chiaro che attorno a Darkhold finiscono per gravitare persone dotate di quei valori che ormai nelle grandi città non sono altro che arbusti avvizziti.
Ho visto negli sguardi di quelle persone la forza dei primi re e di chi ha messo a disposizione unicamente della giustizia, quella vera, la propria vita.
Così, una volta giunti a Darkhold Alaisia benedisse la cappella con una preghiera e la adornò di un ulteriore simbolo della Dea.
E da quel giorno qualcosa è cambiato, sul volto della gente delle gole ho ricominciato a vedere quella schietta spavalderia, quella consapevole incoscienza, e il desiderio di lottare per ciò che è giusto, di lottare per la libertà.
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