- Mon Mar 28, 2022 4:16 am
#50929
In un lento vorticare l'oscurità avvolgeva Lidughat e il ritmo del suo respiro affannato sembrava un martello che colpiva stanco e rassegnato contro le sbarre indistinte di una gabbia.
Lentamente e con molta fatica dischiuse le palpebre e dinanzi a lei vide stagliarsi la cresta di una grande duna. Cominciò a sentire la sabbia scivolarle tra le dita mentre affondava lievemente, e la mente, ancora affaticata, tentava di ridestarsi dal torpore che la pervadeva.
Lo sguardo vagò a lungo tra l'orizzonte del deserto e il cielo che incombeva grigio e cupo su di lei. Un tenue riverbero rossastro attraversava qualcosa a metà tra un immenso banco di nebbia e una coltre di nubi smorte. In quello strano crepuscolo sentì mancare il respiro, accarezzata da un vento stranamente umido e pesante che portava con se un profumo dolciastro, quasi nauseante. Con grande sforzo si mise in piedi sorretta da un unico bisogno: doveva scoprire cosa fosse celato al suo sguardo.
Così cominciò a camminare, un passo incerto dopo l'altro guidata dal ritmo del suo respiro. Man mano che scalava la duna sabbiosa alla stanchezza delle gambe faceva eco la chiarezza nella sua mente, come se quell'ascesa la stesse davvero destando da quello che le era sembrato uno stato di onirica incoscienza.
Una volta giunta in cima, dalla cresta sabbiosa potè scorgere in lontananza delle enormi montagne che si stagliavano imponenti e solitarie a scardinare la linearità dell'orizzonte.
“Kamikush”. Sentì la sua voce echeggiarle nella mente, “voltati, presto”. Seguendo quell'imperativo sfocato potè scorgere in basso, a qualche centinaio di metri, un'oasi.
In quel momento si accorse di avere la gola riarsa dalla sete, le labbra spaccate le bruciavano. Così si mise in cammino e il lento incedere dei suoi passi si fece via via più rapido e sicuro, il respiro sembrava correre libero e forte, rinfrancato da quella nuova determinazione.
Man mano che si avvicinava però l'aria sembrava farsi più pesante, il cielo più incombente su di lei.
Quella che in lontananza le era sembrata una macchia lussureggiante si rivelò essere un intricato groviglio di rovi secchi e contorti. Le palme che circondavano la pozza d'acqua melmosa erano dei simulacri sofferenti e agonizzanti. Tutto attorno a lei sembrava afflitto da una purulenta decadenza.
Fu in quel momento che Lidughat avvertì come un lampo, un dardo che accecò la sua mente e che la fece piegare dal dolore. Cadde sulle ginocchia, le mani sul viso a coprire un urlo muto, poi la sofferenza parve sfumare e le sembrò di restare in quella posizione per un tempo indefinito, ipnotizzata dal tremore delle sue mani.
Improvvisamente però, udì di nuovo quella voce. “Alzati, vieni da me”.
A poche decine di passi da lei, dando le spalle a una piccola cascata, potè vedere una sagoma scura, una persona avvolta in un lungo velo il cui volto era celato.
“Chi sei?” ebbe la forza di pronunciare e si accorse che la sua voce pareva roca e stanca, come se avesse urlato a lungo, e sentì il sapore metallico del suo stesso sangue.
“Avvicinati...” Rispose la figura, la stessa voce che sembrò parlare alla sua mente poco prima. Una donna, qualcuno di familiare forse, ma sfocato e distorto.
Come ipnotizzata da quella voce Lidughat si mise in piedi e cominciò a camminare verso la figura incappucciata. Ad ogni passo l'aria sembrava farsi più fredda, tutto attorno a lei cominciò a vorticare e nella mente si susseguirono immagini terribili, ricordi che aveva tentato di seppellire nei recessi più oscuri della sua anima.
Strinse le palpebre sofferente, il riecheggiare di girda e lamenti la scuotevano e per il dolore le lacrime cominciarono a rigarle il viso. Eppure non poteva smettere di avanzare nonostante vi si opponesse con tutte le forze.
Cercò allora di distogliere lo sguardo, ma a nulla servì, era stata catapultata in un incubo fatto di ombre e dolore. “Perché! perché mi fai questo!?” Disse con un filo di voce, a denti stretti, non ancora rassegnata.
“Dimenticare non ti è concesso, non puoi, lo devi a te stessa, lo devi a lei”.
“A cosa serve? Sono tutti morti ormai”.
Giunta al cospetto di quella figura Lidughat dovette dare fondo a tutte le sue energie per non crollare e soccombere al senso di disperazione che le tempestava la mente di colpi.
Abbassò lo sguardo sulle sue mani, i palmi dischiusi e lordi di sangue. Ormai tutto quello che aveva nascosto, tutto lo strazio dal quale aveva tentato di fuggire, di separarsi, era esploso in lei e le riempiva i polmoni di fiamme e le accecava la mente con un fischio assordante.
Poi sentì la rabbia crescere in lei, strinse con forza i pugni, la bocca distorta in un ghigno, e levò lo sguardo sulla donna che, immobile, sembrava continuare a fissarla.
“Ora basta” disse in un sussurro carico d'odio, “lasciami in pace!”
Con un balzo fu addosso alla creatura ammantata, cercò di colpirla ma era come fosse fatta di fumo evanescente, come se sotto quel velo non ci fosse che aria. Si avvinghiò allora con tutte le sue forze al velo tirando con ferocia verso il basso. “Maledetta!”
Il velo cadde lentamente, come non avesse peso, l'aria si era fatta improvvisamente calma e inerte. Un silenzio irreale circondava Lidughat rotto solo dal suo respiro, spezzato ormai in mille singhiozzi frenetici.
Si rese conto di essere crollata sulle ginocchia. Tremante per il senso di disperazione fissava la creatura rivelata: un enorme serpente la cui livrea ricordava la sabbia del deserto illuminata dall'argentea luce della luna la fissava, la costringeva a guardarlo mentre lei si sentiva violata dall'esasperante calma di quello sguardo.
“Non puoi fuggire” le disse il serpente “Non devi...”
“Perché?” ebbe la forza di dire in un sussurro, stremata, vinta da tutte le sue angosce.
“Perché è te stessa che stai guardando”.
In quel momento tutto sembrò esplodere in un immenso lampo, e in un istante le parve di vedere qualcuno che aveva cercato di dimenticare assieme al suo dolore, qualcuno che, scoprì con sgomento, aveva lasciato un vuoto enrome e profondo dentro il suo cuore.
…
Dischiuse le palpebre sul soffitto di legno della sua stanza, affannava vistosamente, la pelle imperlata di sudore freddo. Lentamente riacquistò coscienza di se e si rigirò su un fianco, le mani a coprirle il viso. “Cazzo!” ebbe la forza di sibilare e mentre tentava di rimettersi in piedi le giunse alla mente una voce, un ricordo che rievocava parole dimenticate da tempo. E quella voce la inondò di una profonda malinconia.
Quelle parole la fecero sorridere amaramente perché, ricordava, segnarono il preludio della sua più grande perdita.
“Accetta quello che è stato, scappare non ti servirà, non sei mai scappata”.

Lentamente e con molta fatica dischiuse le palpebre e dinanzi a lei vide stagliarsi la cresta di una grande duna. Cominciò a sentire la sabbia scivolarle tra le dita mentre affondava lievemente, e la mente, ancora affaticata, tentava di ridestarsi dal torpore che la pervadeva.

Lo sguardo vagò a lungo tra l'orizzonte del deserto e il cielo che incombeva grigio e cupo su di lei. Un tenue riverbero rossastro attraversava qualcosa a metà tra un immenso banco di nebbia e una coltre di nubi smorte. In quello strano crepuscolo sentì mancare il respiro, accarezzata da un vento stranamente umido e pesante che portava con se un profumo dolciastro, quasi nauseante. Con grande sforzo si mise in piedi sorretta da un unico bisogno: doveva scoprire cosa fosse celato al suo sguardo.
Così cominciò a camminare, un passo incerto dopo l'altro guidata dal ritmo del suo respiro. Man mano che scalava la duna sabbiosa alla stanchezza delle gambe faceva eco la chiarezza nella sua mente, come se quell'ascesa la stesse davvero destando da quello che le era sembrato uno stato di onirica incoscienza.
Una volta giunta in cima, dalla cresta sabbiosa potè scorgere in lontananza delle enormi montagne che si stagliavano imponenti e solitarie a scardinare la linearità dell'orizzonte.
“Kamikush”. Sentì la sua voce echeggiarle nella mente, “voltati, presto”. Seguendo quell'imperativo sfocato potè scorgere in basso, a qualche centinaio di metri, un'oasi.
In quel momento si accorse di avere la gola riarsa dalla sete, le labbra spaccate le bruciavano. Così si mise in cammino e il lento incedere dei suoi passi si fece via via più rapido e sicuro, il respiro sembrava correre libero e forte, rinfrancato da quella nuova determinazione.
Man mano che si avvicinava però l'aria sembrava farsi più pesante, il cielo più incombente su di lei.
Quella che in lontananza le era sembrata una macchia lussureggiante si rivelò essere un intricato groviglio di rovi secchi e contorti. Le palme che circondavano la pozza d'acqua melmosa erano dei simulacri sofferenti e agonizzanti. Tutto attorno a lei sembrava afflitto da una purulenta decadenza.
Fu in quel momento che Lidughat avvertì come un lampo, un dardo che accecò la sua mente e che la fece piegare dal dolore. Cadde sulle ginocchia, le mani sul viso a coprire un urlo muto, poi la sofferenza parve sfumare e le sembrò di restare in quella posizione per un tempo indefinito, ipnotizzata dal tremore delle sue mani.
Improvvisamente però, udì di nuovo quella voce. “Alzati, vieni da me”.
A poche decine di passi da lei, dando le spalle a una piccola cascata, potè vedere una sagoma scura, una persona avvolta in un lungo velo il cui volto era celato.
“Chi sei?” ebbe la forza di pronunciare e si accorse che la sua voce pareva roca e stanca, come se avesse urlato a lungo, e sentì il sapore metallico del suo stesso sangue.
“Avvicinati...” Rispose la figura, la stessa voce che sembrò parlare alla sua mente poco prima. Una donna, qualcuno di familiare forse, ma sfocato e distorto.
Come ipnotizzata da quella voce Lidughat si mise in piedi e cominciò a camminare verso la figura incappucciata. Ad ogni passo l'aria sembrava farsi più fredda, tutto attorno a lei cominciò a vorticare e nella mente si susseguirono immagini terribili, ricordi che aveva tentato di seppellire nei recessi più oscuri della sua anima.

Strinse le palpebre sofferente, il riecheggiare di girda e lamenti la scuotevano e per il dolore le lacrime cominciarono a rigarle il viso. Eppure non poteva smettere di avanzare nonostante vi si opponesse con tutte le forze.
Cercò allora di distogliere lo sguardo, ma a nulla servì, era stata catapultata in un incubo fatto di ombre e dolore. “Perché! perché mi fai questo!?” Disse con un filo di voce, a denti stretti, non ancora rassegnata.
“Dimenticare non ti è concesso, non puoi, lo devi a te stessa, lo devi a lei”.
“A cosa serve? Sono tutti morti ormai”.
Giunta al cospetto di quella figura Lidughat dovette dare fondo a tutte le sue energie per non crollare e soccombere al senso di disperazione che le tempestava la mente di colpi.
Abbassò lo sguardo sulle sue mani, i palmi dischiusi e lordi di sangue. Ormai tutto quello che aveva nascosto, tutto lo strazio dal quale aveva tentato di fuggire, di separarsi, era esploso in lei e le riempiva i polmoni di fiamme e le accecava la mente con un fischio assordante.
Poi sentì la rabbia crescere in lei, strinse con forza i pugni, la bocca distorta in un ghigno, e levò lo sguardo sulla donna che, immobile, sembrava continuare a fissarla.
“Ora basta” disse in un sussurro carico d'odio, “lasciami in pace!”
Con un balzo fu addosso alla creatura ammantata, cercò di colpirla ma era come fosse fatta di fumo evanescente, come se sotto quel velo non ci fosse che aria. Si avvinghiò allora con tutte le sue forze al velo tirando con ferocia verso il basso. “Maledetta!”
Il velo cadde lentamente, come non avesse peso, l'aria si era fatta improvvisamente calma e inerte. Un silenzio irreale circondava Lidughat rotto solo dal suo respiro, spezzato ormai in mille singhiozzi frenetici.

Si rese conto di essere crollata sulle ginocchia. Tremante per il senso di disperazione fissava la creatura rivelata: un enorme serpente la cui livrea ricordava la sabbia del deserto illuminata dall'argentea luce della luna la fissava, la costringeva a guardarlo mentre lei si sentiva violata dall'esasperante calma di quello sguardo.
“Non puoi fuggire” le disse il serpente “Non devi...”
“Perché?” ebbe la forza di dire in un sussurro, stremata, vinta da tutte le sue angosce.
“Perché è te stessa che stai guardando”.
In quel momento tutto sembrò esplodere in un immenso lampo, e in un istante le parve di vedere qualcuno che aveva cercato di dimenticare assieme al suo dolore, qualcuno che, scoprì con sgomento, aveva lasciato un vuoto enrome e profondo dentro il suo cuore.
…
Dischiuse le palpebre sul soffitto di legno della sua stanza, affannava vistosamente, la pelle imperlata di sudore freddo. Lentamente riacquistò coscienza di se e si rigirò su un fianco, le mani a coprirle il viso. “Cazzo!” ebbe la forza di sibilare e mentre tentava di rimettersi in piedi le giunse alla mente una voce, un ricordo che rievocava parole dimenticate da tempo. E quella voce la inondò di una profonda malinconia.
Quelle parole la fecero sorridere amaramente perché, ricordava, segnarono il preludio della sua più grande perdita.
“Accetta quello che è stato, scappare non ti servirà, non sei mai scappata”.

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