I Nani

nano

Aspetto: i Djaredin (comunemente detti nani), hanno un aspetto robusto, tale da far risultare la larghezza del proprio torace pari o superiore alla metà della loro altezza. I lineamenti sono squadrati, senza la presenza di rughe, se non in tarda età. Con il passare dei millenni la vita in profondità ha infoltito la loro peluria corporea per mantenere il tasso di umidità del corpo costante. Quasi tutti hanno capelli e barbe lunghe e scure, più o meno curate. Indossano anche quotidianamente delle armature, ma per esigenze di lavoro, preferiscono pesanti completi da lavoro di pelle, oppure vesti sobrie e resistenti. Per molti è abitudine inoltre portare il capo coperto da un robusto berretto di pelle. Nelle parti inferiori del regno dello Djare, si usa corredare questo abbigliamento di un mantello quasi avvolgente, utile per ripararsi dal freddo. Tutti non solo sanno leggere e scrivere la loro lingua “particolare”, ma conoscono piuttosto bene la lingua comune. Il regno possiede una propria lingua ufficiale chiamata “Kyl”. Il Kyl è una lingua dura e gutturale, dove alcune parole esprimono concetti, specie nel ramo lavorativo oppure militare e dove le parole dirette sono particolarmente corte.

Linea ruolistica: il popolo dello Djare è la migliore macchina bellica che si possa pensare. Questa loro terrificante particolarità, si unisce ad una profonda cultura religiosa ed al rispetto della saggezza data più che dall’età, dall’animo della persona. I nani non sono soliti darsi alle riflessioni, ma sanno prendere saggiamente il tempo per scegliere la miglior soluzione ad un problema. Grandissimi lavoratori, il popolo dello Djare vede se stesso come un comune corpo, di cui ognuno è un organo, più o meno vitale. Odiano e temono, tutto quello che può essere legato alla magia, ma sarebbe un errore mortale scambiare il loro timore per paura. Sono al contrario molto inclini ad incentivare il progresso scientifico e tecnologico, questo li rende il popolo più innovativo ed avanzato di Ardania. I millenni di isolamento, che hanno temprato ancor di più il loro animo, hanno reso i Djaredin diffidenti verso tutte le razze, in special modo gli elfi, fautori della loro prigionia. Compatiscono i mezz’elfi per la loro metà “impura”, chiaramente quella elfica e trattano gli umani bonariamente, come farebbe un nonno con il nipote più piccolo. Non farebbero comunque mai approfittare nessuno di tale benevolenza.

Città di appartenenza: Villaggio di Nuran Kar, con la città sotterranea di Grom Bad.

Regni: Il nano è selezionabile esclusivamente nel regno di Kard Dorgast.

Religione: La Triade rappresenta il Pantheon Djaredin.

Le Cronache della Battaglia Sanguinosa

Per altre informazioni: Ardania Timeline

Si afferma che nella più antica sezione della biblioteca dei Djaredin vi siano delle copie di libri chiamati “Cronache della sconfitta sanguinosa”. Questi raccontano in breve di una battaglia che ha decretato la fine dell’antico Regno, dopo una terrificante battaglia contro il popolo elfico. Questo avvenne quando l’uomo posò piede sul suolo d’Ardania, quando gli elfi occupavano entrambi i continenti e questo misterioso popolo soltanto il lato est del regno umano, vicino alle montagne e dentro di esse. All’arrivo dell’uomo questo popolo fiero cominciò a subire i primi furti e fu aggredito da questa nuova razza, che, soprattutto ai primordi, era spinta dallo spirito di sopravvivenza e d’apprendimento. Il popolo dei Djaredin concesse allora all’uomo, che si moltiplicava con velocità sorprendente e viveva pochissimo tempo sulla terra, i segreti dell’architettura in cambio di un’alleanza per scacciare il popolo elfico dal continente. Avvenne allora quello che nel libro è ricordato come “L’accordo silente”. Per più di 100 anni, l’uomo apprese l’arte della forgia e della conciatura. Mentre tutto questo accadeva, si crearono le armi per quella che doveva essere ricordata come “La battaglia delle generazioni”. L’antica arte però era potente e le alte sfere dell’Ordine dell’antica Via sapevano che presto (secondo la vita degli elfi) si sarebbe verificato lo scontro che avrebbe portato all’estinzione uno dei due popoli, se non di quello umano. Sapevano anche che i Djaredin erano divisi in clan e soltanto uno di questi premeva affinché si giungesse ad una guerra senza accordi. I Tremil. Giunse allora dal primo condottiero degli umani un ambasciatore del popolo antico, prendendo accordi con la razza che aveva già da qualche tempo popolato più di quanto si potesse prevedere il continente nella parte ovest, fondando piccoli villaggi ovunque. Nel nome dell’Oracolo dell’Ordine dell’antica Via, l’elfa ricordata nel libro come “La dama bianca”, patteggiò con gli uomini la partenza degli elfi dal continente, ed un aiuto per la costruzione di nuovi posti dove vivere, promettendo aiuti nel caso di carestie.

Il tutto a patto che il giorno della battaglia nessun umano si presentasse alle porte delle loro città. Gli elfi cominciarono a partire nella maniera più segreta possibile, ma un esodo non può essere nascosto agli occhi di tutti, ed i Tremil fecero credere agli altri clan che il motivo della ritirata fosse una fuga dovuta al timore della sconfitta. Nei giorni seguenti tutte le truppe dei Djaredin si ammassarono a ridosso delle città elfiche, ma nessun umano fu visto. Soltanto il condottiero degli uomini si recò dal Re dei Djaredin e gli donò la vita in cambio dello scioglimento del patto. Gli umani non erano un problema al momento, poco progrediti e facili prede, quindi gli Djaredin si concentrarono sulle città. Nel momento nel quale fecero irruzione nelle mura, si accorsero che gli elfi durante l’assedio avevano distrutto tutto quello che le mura contenevano, partendo in massa e lasciando ad affrontarli soltanto L’Ordine dell’antica Via ed un reggimento di arcieri. La battaglia fu terrificante, poiché i Djaredin utilizzavano l’acciaio, mentre gli elfi principalmente la magia e terminò con la resa dei Djaredin, decimati sul campo di battaglia. A quel punto L’ordine rimase a vegliare sulle ultime partenze e a riportare i prigionieri alle loro case nelle montagne. Dopo aver raccolto tutta la popolazione rimanente dell’impero delle montagne, l’Oracolo dell’ordine entrò in meditazione per trovare una soluzione che portasse la pace su Ardania. Passarono due anni e durante questo tempo gli elfi si avvidero che l’uomo, a differenza dei Djaredin, poteva apprendere i rudimenti della magia. Sembrò allora chiaro che l’Oracolo dovesse separare le due razze, per evitare che in futuro queste si associassero nuovamente ai danni del popolo antico. Ordinò quindi una deportazione di tutto il popolo del regno di Djare presso un isola sperduta, e sigillò le loro grotte con magie ad oggi perdute, facendole divenire nuovamente piena montagna. Nessuno poteva liberare il popolo basso. Gli umani ignoravano la navigazione, come il popolo delle montagne. Per di più i sigilli dell’isola non potevano essere rotti dai Djaredin, che ignoravano l’uso della magia.

Sedati gli ultimi conflitti ed uccisi tutti gli ultimi facinorosi, la deportazione coinvolse tutta la parte più pacifica dei Djaredin che avevano subito il conflitto, più che viverlo. La pietà degli elfi risparmiò allora due popoli, al prezzo di dimenticarne uno… per sempre. Il popolo di Djare vide tutto questo con occhi velati di odio, e non comprese la pietà degli elfi, dei quali da quegli antichi giorni ha giurato di vendicarsi. Quando tutti gli elfi furono alle loro case, la magia dell’antica via aveva eliminato anche le ultime spoglie degli antichi reami di Djare e degli elfi dal continente umano. Partirono allora anche gli ultimi elementi dell’Ordine dell’antica Via, unico custode dei segreti di ciò che avvenne dopo la battaglia e durante essa. Quella che passò alla storia elfica come “La battaglia delle generazioni”, e di quella Djarense come “La sconfitta sanguinosa” fu descritta in maniera minuziosa agli elfi, ma annettendo il particolare che tutti i Djaredin erano morti nello scontro e che un cedimento delle loro grotte, dovuto alla carenza di mano d’opera adulta, aveva ucciso le ultime rimanenze dei vari clan che avevano rifiutato di uscire dai profondi nascondigli. Nessuno mise in dubbio le parole dell’Oracolo, come era consuetudine, poiché custode della verità. Nel mentre gli elfi erano stati guidati saggiamente dalla bianca dama, che rimase al potere consigliata dall’Oracolo e dagli ultimi suoi otto seguaci. Dopo di questo, i Djaredin non seppero più nulla del mondo della luce, e cominciarono la loro nuova avventura nel buio.

Crearono la loro nuova storia, preparando una nuova ascesa per il loro glorioso popolo guerriero.

I Djaredin sono una monarchia assoluta (che rispecchia la loro fede religiosa ed il culto per gli Dei). Il Re (attualmente è tornato a regnare Thorreg GridoPossente, estremamente stimato dalla comunità) assolve tutte le funzioni temporali, e guida il popolo in battaglia in qualità di capo dell’esercito. Egli è affiancato da due consiglieri, l’Archon, generale delle forze armate, ed il Morgat considerato il più saggio della comunità e gran sacerdote di Korg. Pur avendo sempre l’ultima parola, il sovrano non esita mai, a fronte di decisioni di una certa importanza, ad ascoltare i suggerimenti dei due consiglieri, in virtù del gran rispetto che la cultura Djaredin nutre nei confronti della saggezza e della conoscenza (conoscenza intesa più come competenza nel proprio ruolo che come conoscenza astratta, o cultura generica e pedante). E’ totalmente estranea la presenza di individui con mansioni di politica estera, giacché il totale isolamento li rende del tutto inutili. La carica di Djare (la somma carica ha lo stesso nome del popolo che comanda) non è ereditaria. Alla morte del Re, la comunità elegge il nuovo Sovrano. Partecipano a tale elezione i soli Djaredin che abbiano compiuto il cinquecentesimo anno di età. Nel periodo che intercorre tra la dipartita del vecchio Djare e l’elezione del nuovo, il Morgat assume la carica di reggente temporaneo, assumendo tutte le funzioni regali eccetto quelle militari, che sono assunte dall’Archon. Il Morgat è anche il referente per le faccende inerenti all’amministrazione reale, egli si propone come tramite tra il Re ed il popolo (col compito informale di far ragionare entrambi, prima che si sia costretti a giungere a decisioni forzate o eccessivamente di parte).

Ovviamente, essendo il gran sacerdote del culto principale, è anche la massima autorità religiosa, ed in questo campo gode di una maggiore libertà decisionale, restando il fatto che in ogni caso nessuna decisione può essere presa in mancanza del parere positivo del sovrano. Il Regno di Djare, così come si è riformato, essendo costituito da un ristretto numero di individui può contare su un esercito in teoria piuttosto piccolo. La cosa rappresenterebbe una debolezza per la maggior parte dei reami conosciuti, in realtà la cultura guerriera degli abitanti del sottosuolo è fortemente improntata all’autodifesa, e in situazioni di necessità non c’è Djaredin, maschio o femmina, che non sia pronto ad impugnare le armi e combattere per l’incolumità del suo regno e della sua casa. I soldati di professione sono, come già ho detto, in numero piuttosto limitato. Esiste una milizia, nucleo e struttura portante di qualsiasi esercito. Si tratta di soldati esperti nel combattimento, sia nei cunicoli più stretti, che nelle grandi caverne, abili ed addestrati anche dal punto di vista tattico, che utilizzano armi e corazze pesanti (soprattutto asce e martelli) e prediligono gli attacchi frontali. Trovandosi i Djaredin, da molti secoli, in un periodo di pace questi soldati sono stati assegnati per lo più a compiti di pattugliamento e salvaguardia delle zone più estreme del regno, dove sono state edificate piccole caserme ed avamposti. L’unico evento bellico degno di nota è legato ad un tentativo di invasione da parte di alcune tribù di lucertole, che probabilmente a causa di un crollo o di un’inondazione di parte delle loro caverne tentò di guadagnare nuovi spazi spingendosi verso la superficie. I veterani dell’esercito ricordano quel periodo come “l’anno delle corazze di pelle”, in ricordo della grande abbondanza di pelli di lucertola che i malcapitati invasori si lasciarono dietro.

L’altro importante reparto militare è il cosiddetto “ordine degli esploratori”. Si tratta di un corpo scelto di soldati e minatori, che hanno il compito di trovare nuovi giacimenti di minerali, o nuovi spazi. Le squadre di esploratori, comandate da un ingegnere minatore, gran conoscitore di ogni tipo di roccia e di ambiente sotterraneo, battono le caverne ed i budelli estremi del regno, spesso combattendo contro le altre creature che con loro si contendono questi ambienti. A causa delle lunghe marce, spesso gravate dal peso degli attrezzi o dei campioni di roccia, gli esploratori preferiscono armarsi alla leggera, con corazze di pelle borchiata ed armi non troppo ingombranti, alcuni di loro poi portano con se dei grossi scudi. I soggetti ostili incontrati da questi soldati sono solitamente di poco conto, e sono liquidati facilmente. Tuttavia, quando il nemico è oltre la portata del piccolo drappello, si ricorre ad una tattica ben precisa. Gli esploratori trovano un punto di accesso piuttosto stretto e facilmente difendibile, mantengono la posizione e nel frattempo una staffetta si dirige di gran carriera verso il presidio dell’esercito regolare più vicino, sollecitando l’intervento dei rinforzi. Molto spesso il capo esploratore decide di sigillare il passaggio o la caverna, giusto per guadagnare del tempo: mentre gli scavatori si occupano di provocare il crollo controllato, i loro compagni li proteggono, oltre che lottando, avvalendosi anche dei grossi scudi di cui ho parlato poco sopra.

A tal proposito, è entrata nei manuali e nei saggi di tattica e teoria militare la brillante operazione portata a termine dalla squadra dei Bortrox, comandata da Tydor il martellatore, primo cugino del Re, con cui i Djaredin riuscirono a strappare ad un Drago delle caverne una grande grotta ricca di giacimenti di Adamantio. Va infine ricordata la milizia cittadina. Il suo scopo è quello del mantenimento dell’ordine in città, far rispettare le leggi, e vigilare sulle attività quotidiane del Regno di Djare. Un corpo piuttosto semplice, presidiato da un Supttore, un commissario della milizia con compiti che si restringono alla semplice pattuglia, alla risoluzione di sporadiche contese o accenni di litigi e soprattutto al controllo delle zone interdette allo scavo. Alla luce della cultura Djaredin, che considera prerogative di un capo non solo la saggezza ed il raziocinio, ma anche la virtù militare e l’abilità tattica, comandante supremo di tutte le forze armate è il Sovrano. Costui, secondo la tradizione, scende in campo e guida il suo popolo in battaglia dando la carica e combattendo al fianco dei soldati (ciò ovviamente solo nelle grandi battaglie, e non in ogni singola scaramuccia). Vicario del Re, suo sostituto nelle ordinarie faccende militari, è l’Archon, che come già detto insieme al Morgat partecipa alla conduzione del regno. Si tratta di un guerriero abile e forte, per il quale lo stesso Re nutre un profondo rispetto. I suoi compiti sono quelli legati all’ordinaria amministrazione dell’esercito, l’organizzazione di piccole campagne militari, la sovrintendenza delle strutture e, naturalmente, la guida delle truppe sul campo.

Clan RombodiTuono

Si tratta del clan per eccellenza più vicino alla tecnologia. Deve il suo nome al giorno in cui il suo capostipite decise di dare prova della sua abilità davanti a tutto il popolo riunito.
Discendenti di Duregar Torvocipiglio, colui che per primo scoprì i segreti della polvere nera e il suo utilizzo, i nani appartenenti a questo clan sono spesso visti dal resto della popolazione come individui eccentrici e stravaganti.
Questo clan può vantare tra le sue fila i più abili artigiani del Regno di Djare, nonché i più valenti architetti e ingegneri djaredin. Questi nani però, sono spesso anche i più diffidenti nei confronti delle altre razze: questo è dovuto soprattutto alla loro morbosa salvaguardia dei segreti riguardanti le invenzioni. Si tratta comunque di nani curiosi, spesso tra i più devoti fedeli di Berzale, quindi in alcuni casi riescono a spingersi oltre la loro diffidenza spinti dalla sete di conoscenza.
La filosofia dei RombodiTuono crede fermamente nel fatto che il benessere del Regno di Djare dipenda soprattutto dal suo livello tecnologico e dal progresso scientifico.

Clan Fiammaeterna

Pare si tratti del più antico clan del Regno di Djare. È un clan fortemente teocratico la cui vita ruota tutta attorno alla fede nella Triade e alla consapevolezza dell’importanza che la religione ha all’interno della vita quotidiana: sono convinti che il Regno debba essere guidato attenendosi rigidamente agli insegnamenti dettati dalla Triade stessa.
Possono vantare una tradizione ricca di nani che hanno ricoperto ruoli importanti all’interno del Tempio: tra questi non pochi sono i Morgat passati alla storia.
I membri di questo clan sono fortemente tradizionalisti e conservatori, al punto che spesso non vedono di buon occhio i cambiamenti radicali e le novità.
Il capostipite dei Fiammaeterna è Grom Elmolucente, uno dei più saggi esponenti del popolo djaredin, primo Morgat del Regno di Djare e fondatore del Tempio. La sua profonda devozione lo spinse ad assumere come nome proprio del Clan il simbolo stesso di Korg e fu lui in persona ad accendere l’attuale Fiamma Eterna che da millenni viene custodita e che mai è stata spenta.

Clan Forgiarovente

Clan noto per le gesta compiute in battaglia e per i tanti eroi passati alla storia, i ForgiaRovente sono noti per avere tra le proprie fila abili fabbri e guerrieri disciplinati e ben addestrati. Non è raro infatti trovarli alle prese con allenamenti ed esercitazioni nel loro tempo libero: questa loro indole guerriera spinge alcuni di loro a disprezzare chi non sa combattere.
Deve il suo nome ad una vecchia storia che narra di come la forgia del loro capostipite, fosse alimentata direttamente da un fiume di lava che scorreva nelle vicinanze.
Discendenti di Kurgan Flagellaorchi, i membri di questo clan sono convinti che il Regno può prosperare e perdurare rafforzando l’Armata e aumentandone il potere e peso politico.
La loro abilità nella forgia, spesso li spinge a instaurare rapporti commerciali anche in superficie, cosa che forse rende i Forgiarovente i nani che più di tutti hanno relazioni con le altre razze.

Clan Freddalama

Non si tratta di un clan a tutti gli effetti, in quanto i suoi membri non hanno legami forti di sangue. I Freddalama si sono formati dopo il ritorno in superficie del popolo djaredin. Molti di loro sono discendenti dei nani che prima del Lungo Esilio giravano spesso in superficie.
La maggior parte di loro sono cacciatori, conciatori di pelli e taglialegna. Attualmente vivono nel villaggio nanico di Nuran Kar, ma mantengono saldi e ottimi rapporti con Kard Dorgast.
I Freddalama sono senza dubbio i nani più aperti alle altre razze.
Il nome deriva da un nomignolo che i nani di Kard usavano per riferirsi a loro, nomignolo più che altro usato per schernirli in quanto inizialmente non videro di buon occhio la loro partenza dalla Gemma.
Il loro capoclan è Durgrin Vistacuta, nonché capo del villaggio: si tratta di un famoso cacciatore di troll, noto anche per la sua cordialità che decise di prendere la guida del clan per sistemare alcune discordie nate tra le due famiglie più importanti del villaggio.

Clan Tremil

I nani sono soliti evitare discussioni su questo clan.
Da sempre il popolo djaredin li considera colpevoli per averli trascinati nella leggendaria Battaglia Sanguinosa.
Per lungo tempo non si hanno avuto notizie di questo Clan e dei suoi discendenti: i nani di Kard Dorgast non si curano più di loro, ma non li hanno certo dimenticati e provano astio e rabbia nei loro confronti. Nei tempi recenti molti esponenti di questo clan sono tornati allo scoperto, e gradualmente è stato reintegrato nella vita del regno.

L’economia del regno di Djare è essenzialmente un’economia chiusa e di sussistenza. La totale mancanza di contatti con altri popoli ed altre razze ha fatto si che l’unico mercato plausibile fosse quello interno. Non sussistono vincoli di sorta, ed ogni popolano ha libera iniziativa economica, se si eccettuano i divieti relativi allo scavo in prossimità del Tempio ed in determinate zone considerate “portanti”, che potrebbero compromettere l’integrità delle grotte e causare crolli pericolosi per gli altri abitanti. L’attività estrattiva è una delle più diffuse, anche per tradizione. Il sottosuolo offre una grande varietà e quantità di minerali pregiati dai quali i minatori più abili ricavano leghe preziose e resistenti, e rocce che gli scalpellini trasformano in materiale per la costruzione. Questa grande abbondanza di materia prima ha permesso agli Djaredin di poter continuare a praticare l’attività per eccellenza del regno di Djare: l’arte di lavorare i metalli. Un popolo guerriero non può che avere una grande tradizione di fabbri ed armaioli. Sin dall’alba dei tempi essi costruiscono armature di fattura superba, comode come vesti di seta, e resistenti come la roccia viva, ed armi massicce e micidiali nei metalli più resistenti e difficili da lavorare.

Sono abili anche nel conciare le pelli, benché il luogo in cui sono confinati non offra grande abbondanza di tale materia. Non è eccessivo parlare di vere e proprie opere d’arte, giacché il possesso di una determinata arma costituisce uno status symbol, un simbolo di distinzione all’interno della comunità: un giovane che abbia passato la maturità sessuale farà sfoggio dell’arma regalatagli dagli altri uomini della sua famiglia, mentre, col passaggio all’età adulta si è soliti indossare un’armatura che era appartenuta ad un genitore, rappresentazione allegorica del maggior peso gravante sulle sue spalle.

I fabbri Djaredin pertanto hanno acquisito particolare maestria nel forgiare manufatti in metallo pregiato, finemente decorati e cesellati, simili, in termini di bellezza ai gioielli che indossano gli altri popoli. Agricoltura e allevamento, inizialmente pressoché inesistenti, col tempo sono riuscite a ritagliarsi uno spazio degno di rispetto tra le attività del sottosuolo. Durante il grande esodo, dei pochi animali che il popolo riuscì a portare con sè pochi sopravvissero. Le bestie di grossa taglia, bovini ed animali da soma, morirono quasi subito, incapaci di adattarsi alle nuove condizioni di vita. Gli unici che non subirono grandi traumi nel nuovo ambiente furono i maiali. La comunità tiene in grande considerazione questo animale, grazie al quale riuscì a sopravvivere ed a superare le difficoltà dei primi anni, non solo cibandosi delle sue carni ed utilizzandone lo sterco essiccato come combustibile e come concime, ma anche servendosi del suo fiuto infallibile per trovare tuberi e radici. L’agricoltura è stata rallentata (quasi impossibilitata) dalla mancanza della risorsa principale necessaria alle piante: la luce del sole.

I primi tempi (secondo la vita media di uno Djaredin) furono esclusivamente incentrati sulla raccolta di quelle poche e scarse varietà che il sottosuolo offriva. La comunità scoprì di poter contare su una gran quantità di vegetali, funghi, muffe, radici, che potevano essere utilizzate e che diedero loro nuove speranze. Vengono tuttora coltivati funghi e verdure bianche, che ben si adattano all’ambiente caldo-umido ed alla tenue luce artificiale ottenuta con i fuochi e le torce di cui sono disseminate le grotte. Il guano prodotto dai pipistrelli in alcune caverne ha permesso di coltivare anche alcuni sementi che la gente si era portata dietro durante lo sconfinamento, anche se le condizioni non consentono un totale sviluppo di un gran numero di piante, e ci si è accontentati di cibarsi dei soli germogli, utilizzando altre tecniche per ottenerne i semi. Esistono poi delle “piantagioni”, se così si possono chiamare, di una particolare pianta (una sorta di muffa) che raggiunge dimensioni considerevoli, tali da arrivare alla spalla di uno Djaredin adulto. Cresce in ambienti umidissimi, semi-aquatici, ed il calore ne facilita ed incrementa lo sviluppo. Si tratta di una pianta erbacea caratterizzata da lunghi steli che possono essere essiccati ed usati come materia prima per l’artigianato e l’edilizia. Ma la parte più importante di essa è una folta peluria, che avvolge la base da cui partono gli steli, una sorta di cotone, che opportunamente filata e lavorata da vita ad un tessuto pesante e resistente, e particolarmente duttile ad ogni tipo di lavorazione e di colorazione. Ciò ha fatto si che anche la sartoria potesse tornare in auge come mestiere e soprattutto ha contribuito a mantenere elevato il livello di civiltà del popolo, essendo l’unica alternativa valida alla tela di ragno, senz’altro più pregiata ma al contempo estremamente rischiosa da procurare. Anche al legname è stata trovata una valida alternativa. Si tratta di un fungo, detto “dei titani”, che raggiunge dimensioni impressionanti, ed il cui gambo, opportunamente trattato, può essere utilizzato come il legname, poiché ne assume le caratteristiche principali.

Si tratta tuttavia di un bene prezioso, dato che gli esemplari di fungo dei titani crescono piuttosto isolati gli uni dagli altri, e quindi i re, per evitare speculazioni, ne vietarono il commercio invitando chiunque vi si fosse imbattuto a segnalarne la presenza ai funzionari del regno, affinché fosse raccolto e custodito (unico diritto che può rivendicare chi abbia fatto la scoperta, è che una quantità pari alla terza parte sia utilizzata per la costruzione di un’abitazione o di mobilia, per sè o per i suoi figli). In ultimo va fatta menzione di una piccola fetta dell’economia sotterranea, che è comunque costantemente alimentata da necessità oggettive della comunità: il commercio delle cavalcature. Tra i Djaredin questo commercio viene chiamato “delle necessità”, per sottolineare il doppio senso insito nei molteplici utilizzi dei due animali che questo popolo addomestica.

Il principale animale utilizzato è lo scarafaggio gigante. Questo animale è preziosissimo per il popolo di Djare poiché, oltre a poter essere utilizzato come utile cavalcatura, può essere macellato ricavandone piccoli pezzi di carne dai quali si ricava un delizioso stufato di funghi. Inoltre le parti di scarto vengono conservate in grotte dove il freddo del sottosuolo è più intenso, per essere utilizzate come alimento per l’altro animale commerciato, la lucertola gigante. Lo scarafaggio è un animale che ama nutrirsi di quello che il popolo scarta, e visto che nel sottosuolo non è facile liberarsi dei rifiuti solidi cittadini, questi vengono eliminati dandoli in pasto a questo animale e ottenendone tre notevoli vantaggi: rinvigorimento degli animali, eliminazione dei rifiuti, preservazione delle riserve di cibo commestibile. Come accennato sopra, esiste un altro animale commercializzato ed utilizzato, la lucertola gigante. Queste rare lucertole sono di colore bianco intenso e cieche dalla nascita. Vista la scarsità di cibo che si può destinare loro (si cibano principalmente di scarafaggi), l’economia di Djare ne può sostenere pochissime. Queste vengono spesso utilizzate come animali da soma durante i lavori di costruzione, oppure come animali da tiro nel caso di trasporti particolarmente gravosi. Difficilmente qualcuno le utilizza come cavalcature, poiché richiedono un’alta spesa per il loro sostentamento. Una delle innovazioni introdotte dal Re Thorreg GridoPossente è il sostegno di un gruppo di questi animali da parte della tesoreria del regno, per ogni tipologia di necessità: estrattiva, mineraria, di escavazione e quant’altro.

Il pantheon del Regno di Djare, se paragonato a quelli umani ed elfici, è estremamente più semplice, ma non meno carico di significati. Sono tre le divinità adorate o riconosciute nel sottosuolo. Korg, il dio Guerriero, apice della triade, “Colui che guida e difende”. Egli è l’idealizzazione del culto del guerriero, rappresentazione divina di ciò che è il re in terra. Korg veglia sul suo popolo come un sovrano e ne benedice ogni aspetto della vita quotidiana. E’ il patrono di ogni attività, di soldati e artigiani, uomini e donne, delle armi e degli attrezzi di tutti i giorni. Le donne portano i neonati nel tempio a lui dedicato, ed al cospetto della sua statua annunciano quello che sarà il loro nome, augurandosi che le sue gesta ed il suo spirito siano sempre illuminate dalla Sua benevolenza e dal Suo giudizio. Gli artigiani invece chiedono la benedizione per i propri attrezzi e le proprie botteghe, ma anche per i figli che ne continueranno l’attività, e per tutti i clienti che se ne servono o se ne serviranno. In cambio gli offrono in dono i loro manufatti, o pregiate materie prime, insieme a birra di radici e cibo dei giorni di festa.

Korg è simbolo di speranza, e la rappresentazione allegorica più diffusa della speranza è la luce. Luce che nel sottosuolo acquisisce un ulteriore valore di generatrice di vita e segno di civiltà. E’ per questo motivo che i suoi sacerdoti tengono all’interno del tempio un’enorme fiamma sempre accesa, fin dall’alba dei tempi. Accanto al dio guerriero, come suo consigliere, spicca la figura di Berzale, divinità cui sono associate la saggezza e la conoscenza. Egli è il custode del sapere, colui che scrive la storia e la cultura degli Djaredin, che grazie a Lui mai potranno essere dimenticate. Patrono di tutte le persone sagge e degli studiosi, Berzale ispira la mano dei cronisti e dei dotti, ne ravviva i ricordi e trasforma i loro scritti in sapere, che sarà tramandato di generazione in generazione. Non è come Oghmar, semplicemente il dio della conoscenza. O meglio, è il concetto stesso di conoscenza, inteso dagli Djaredin, ad essere differente da quello di elfi ed umani. Non si tratta del semplice sapere circoscritto alle biblioteche ed ai luoghi di studio. La conoscenza per il popolo del sottosuolo è tutto il bagaglio di sapere accademico e teorico, ma anche, e di pari importanza, empirico e pratico. Il fedele si rivolge a Berzale non solo prima di intraprendere studi particolarmente difficili ed oscuri, ma anche in caso di apprendimento di nuove tecniche di lavorazione artigianali, tattiche militari, o consigli relativi alla vita quotidiana e familiare. E’ molto suggestiva la parte del tempio a lui dedicata, si tratta di una vera e propria biblioteca, custodita dai sacerdoti, che si occupano anche della manutenzione degli scritti e della ricopiatura di quelli più antichi, continuamente messi a repentaglio dall’umidità delle grotte. Vi si trovano testi di ogni materia e di vari autori: trattati sui minerali e la lavorazione di essi, descrizioni accurate e documentate delle caverne e dei suoi abitanti, testi di medicina, ed anche i preziosissimi scritti risalenti al tempo in cui il Popolo Djare viveva ancora alla luce del sole, i “Libri della Memoria”. La terza ed ultima divinità è volutamente avvolta da un velo di mistero. Si tratta di Dera, dio neutrale e custode delle arti arcane, signore delle onde e del “Grande Mare”, le due cose più temute dalla comunità. Ad un primo impatto sembrerebbe trattarsi di una divinità malvagia, una divinità della paura. E ciò è avvalorato anche dalle sue sembianze: infatti, Dera è rappresentato leggermente più alto e più esile dello Djaredin medio. Nonostante le differenze somatiche siano minime, sono più che sufficienti a discostarlo dall’idea di membro effettivo del patrimonio culturale.

Tuttavia, il mancato antagonismo con Korg e Berzale, esclude a priori che si tratti, come ho già detto, di una divinità malvagia. Dera è più che altro la personificazione di un monito, ciò che si prova nei suoi confronti non è paura, cosa estranea ad un popolo fiero e al contempo saggio e razionale, bensì una sorta di timore reverenziale; per citare uno scritto sacro “…la stessa sensazione che si prova a camminare su di un ponte: nonostante sia solido e costruito in maniera ineccepibile, esso rimane tuttavia sospeso nel vuoto. Un vuoto pericoloso, che come tale va tenuto in considerazione, poiché fin quando non si attraversa il ponte, nessuno può sapere se esso reggerà anche quando avrà imboccato la via del ritorno…”. Per quanto riguarda la rappresentazione degli altri due membri del pantheon, è doveroso spendere alcune parole. Entrambe sono figure maschili, ed hanno i tratti tipici dello Djaredin adulto, con la barba folta ed il fisico tarchiato. Korg è seduto su un trono di pietra grezza, scolpita ma non levigata, indossa una corazza ed i piedi sono ben piantati per terra. Con la mano destra regge il manico di un’arma (generalmente un’ascia o un martello), la cui lama o parte contundente poggia per terra. La mano sinistra invece è poggiata al bracciolo del trono, e lo stringe con presa salda, quasi a simboleggiare l’attaccamento sia al ruolo di guida, che alla terra di cui la pietra rappresenta la carne, e gli Djaredin il sangue. Sul suo capo è posata la corona di mitrhryl, copia esatta di quella che indossa il Djare. Belzare è più avanti con l’età (allegoricamente), è la classica figura stereotipata del saggio. Anche lui raffigurato seduto, anziché su di un trono sta sopra uno sgabello, con un libro sulle ginocchia, la mano sinistra scorre le righe, la destra invece è aperta a mezz’aria, col palmo rivolto verso il basso, in quella che ha tutta l’aria di essere una benedizione. Benedizione che scaturisce dalle parole che il dio sta leggendo sul libro, e la bocca stessa è congelata nell’attimo in cui le labbra stanno sussurrando qualcosa: la classica figura della persona che legge sottovoce, o che recita una lettura per se stesso.

A differenza di Korg, il cui sguardo è proiettato in avanti, come a scrutare il suo popolo dall’alto in basso, quello di Belzare è chino sul libro, gli occhi leggermente socchiusi. Della rappresentazione di Belzare non si può dire molto, dato che non esistono statue, ma solo qualche rara raffigurazione inserita dai miniatori, nei codici di teologia, o in qualche leggenda sulle vicende degli dei. I tratti sono quelli di cui si è già parlato, a volte la figura viene sfumata da presunte nuvole di fumo o nebbia, altre volte luci colorate appaiono sullo sfondo. Unico aspetto comune e degno di nota è che non viene mai rappresentato in modo statico, la figura è sempre in movimento. La casta sacerdotale è circoscritta ad una ristretta cerchia di membri. I Rodolan (così gli Djaredin chiamano i loro sacerdoti) sono dieci, tre per ogni divinità, ed il Morgat, gran sacerdote di Korg e capo del culto. Per sopperire a questa esiguità di membri, i sacerdoti si servono, per espletare parte delle loro mansioni, di una “manovalanza” specializzata, comprendete novizi che frequentano la scuola del tempio, soldati, ed infine operai, più tutta una serie di altri individui che possono essere assunti per lavori di entità straordinaria. Per quanto riguarda i compiti prettamente legati ai doveri spirituali, è pacifico che le varie differenze vadano ricercate nella classificazione divina.

I sacerdoti di Korg si occupano delle cerimonie funebri e nuziali, e delle cerimonie di benedizione dell’esercito e dell’incoronazione del Sovrano, oltre naturalmente a presidiare un gran numero di funzioni. Sono sacerdoti guerrieri, nel senso più puro e letterale del termine, addestrati al combattimento ed educati alla disciplina ed alla vita militare, ma anche profondi conoscitori delle vicende politiche quotidiane. Sono invece custodi della conoscenza i “tre saggi”, così sono chiamati i sacerdoti di Belzare. Essi sono studiosi, profondi conoscitori di tutta la cultura Djare e non solo, esperti in un gran numero di discipline sia pratiche sia teoriche, ed attraverso un attento lavoro di studio e di ricerca sono stati più volte in grado di integrare e migliorare la cultura e la vita nel sottosuolo. I Rodolan di Belzare sono responsabili della biblioteca del tempio e si dice che, nel corso del loro mandato, assimilino tutta la conoscenza in essa contenuta (la leggenda vuole che addirittura conoscano a memoria tutti i testi in essa contenuti), ma sono soprattutto gli unici che hanno le conoscenze tecniche necessarie alla conservazione dei preziosi testi, continuamente messi in pericolo dall’umido e dalle muffe. Altra e non meno importante conoscenza che questi sacerdoti possono vantare, è quella medica. Sono gli unici, infatti, che hanno una consistente cultura in campo medico, conoscono l’anatomia e la fisiologia degli Djaredin, al punto tale da aver raggiunto una certa maestria nel campo. I sacerdoti di Dare sovrintendono i riti legati alla morte, stato supremo del mistero, e vengono spesso chiamati a pregare o ad assistere gli eventi straordinari, carichi dell’impronta del destino. Hanno il difficile compito di assistere le zone delle cripte e farle restare funzionali nel tempo.

Culto dei Morti

Gli abitanti del regno di Djare nutrono un profondo rispetto nei confronti dei morti, e tale rispetto, si riflette nelle cerimonie e nelle modalità con cui si accompagna il defunto verso il suo ultimo viaggio. Alla morte di un membro della comunità, il corpo riposa un’ultima notte nella sua casa accompagnato dalla nenia delle donne della famiglia, che vegliano su di lui fino alle prime ore del mattino, ricordando con un lungo percorso mnemonico tutta la vita del de cuius, le sue imprese, il suo carattere e la sua condotta come Djaredin. Il mattino seguente gli uomini (o le donne, se il defunto è una Djaredinas), si occupano di vestire e preparare il corpo per la processione funebre. Il feretro è vestito con una delle sue armature (non necessariamente la più bella), in particolar modo con quella cui era più legato, e l’arma regalatagli per il passaggio all’età adulta viene posata sul petto, con la mano destra che ne stringe l’impugnatura. Nella mano sinistra invece, racchiude nel pugno un ammontare di 13 monete d’oro (l’uno ed il tre, dovrebbero rappresentare il defunto, e le tre divinità) da presentare al dio Korg come tributo, in maniera tale da poter entrare a far parte del suo esercito. Il corpo, così sistemato, viene adagiato su una lettiga di legno (“di fungo”), lavorata e cesellata, messa a disposizione dal tempio. La processione parte dalla casa del defunto, e lo accompagna fino al luogo di sepoltura. La cosa che più colpisce è la totale assenza di canti o preghiera, nessuna omelia, nessuna nenia funebre: un popolo guerriero non teme la morte, e non si lamenta.

Per motivi igienici e di sicurezza le tombe degli Djaredin sono piuttosto lontane dalle caverne principali, e dal centro abitato (la marcia può durare diverse ore di cammino). In un ambiente come quello sotterraneo, infatti, i gas della decomposizione, ed i liquami potrebbero dar luogo a pericolose epidemie. Si tratta di lunghe catacombe, con centinaia di nicchie, divise in serie da cinque, scavate nella roccia grezza dal pavimento fino al soffitto che si snodano attraverso svariate Pardelle (Una pardella equivale a tre passi di Djaredin) di distanza, illuminate da lanterne e torce che i guardiani tengono sempre accese. Solo al momento della deposizione della salma, un sacerdote di Dare pronuncia una breve formula in antico dialetto, con cui augura al defunto un felice viaggio, e lo rassicura che tutta la comunità si prenderà cura della sua famiglia e che i suoi figli (o le sue figlie) sono ormai pronti per occupare il posto che fu del padre (o della madre). Terminata la breve orazione funebre, la nicchia viene richiusa con una lastra di pietra liscia, sulla quale è inciso il nome del defunto ed una breve memoria della sua vita, ed ulteriormente sigillata con colate di bronzo fuso, che andranno a saldare le giunture (si usa una tecnica particolare atta ad evitare sgocciolamenti o sbavature antiestetiche). La cerimonia si conclude con la marcia di ritorno, durante la quale i parenti del defunto ricevono le condoglianze e mangiano il cibo offertogli in segno di cordoglio.

L’intera mappatura del sito funerario è affidata ai sacerdoti di Dare, ed è riprodotta su un’immensa parete di pietra, all’ingresso del sito che ne riproduce la sezione, in cui sono segnati i numeri ed i nomi delle gallerie, e nella quale vengono aggiunti di volta in volta i nomi delle persone di nuova sepoltura. I sacerdoti inoltre vegliano sulla necropoli, e ne curano la manutenzione (in realtà questi compiti sono eseguiti da soldati ed operai specializzati, ai sacerdoti è affidata la soprintendenza e la direzione dei lavori). Una differente destinazione spetta alle salme di coloro che furono Djare. I feretri reali, infatti, verranno tumulati in quella che è chiamata “Grotta dei Re”: si tratta di un’immensa caverna, le cui pareti sono scolpite con motivi architettonici e decorativi, quasi a riprodurre l’interno di un tempio, l’ingresso si apre in una sorta di anticamera naturale e rispecchia fedelmente la facciata di una cattedrale ed enormi lampadari illuminano lo spazio, diffondendo una luce chiara che si riflette sulle superfici di pietra levigata delle pareti e sul pavimento. Il corpo viene deposto in un sarcofago di pietra, sul cui coperchio è scolpita una perfetta riproduzione della persona del sovrano, a grandezza naturale, adagiata in posizione supina. Ai piedi del rilievo, una piccola lastra reca un epitaffio con le generalità del Re, il periodo in cui ha regnato, e tutte le imprese degne di nota compiute in vita. Anche ai Morgat e agli Archon è riservato il privilegio di essere seppelliti nella “grotta dei Re”, entrambi lungo le pareti della grotta, in modo che ai Djare sia riservato lo spazio centrale; i primi vengono adagiati in posizione supina all’interno di nicchie che ricordano quelle riservate agli altri membri della comunità, i secondi invece vengono sistemati in posizione eretta, e sulla lapide un bassorilievo produce le fattezze dell’occupate della tomba, i cui occhi sono puntati nella direzione del Sovrano al quale fu fedele.

La visione dell’oltretomba, nel regno di Djare, è piuttosto semplice, e rimanda alle vicende passate. Dopo la morte uno Djaredin percorrerà la “via del giusto”, assisterà a tutti gli episodi positivi o negativi che hanno caratterizzato la sua vita, e sarà chiamato a riflettere su di essi. Al termine di questa riflessione, che è al di fuori dei concetti di spazio e tempo, le sue colpe saranno espiate, i suoi difetti saranno annullati, e le sue imprese o vicende positive diventeranno virtù. Solo adesso potrà seguire la “via del saggio e del guerriero”, sarà un soldato virtuoso e sapiente, ed andrà ad aumentare le file del “Glorioso Esercito” guidato da Korg e dal suo consigliere Belzare. Un esercito che “… siederà in un’immensa caverna, la cui volta sarà il cielo, le cui pareti saranno gli alberi ed il vento, ed il pavimento un’immensa distesa verde. Vi saranno fiumi ed animali, ed incastonate in montagne maestose, grandi grotte di pietra sottile e trasparente da cui filtrerà la luce di Korg, ed i soldati non avranno mai fame né sete, mai freddo né caldo, e non soccomberanno mai alla stanchezza. […] ed essi veglieranno sul popolo del regno di Djare, scacciando la sventura e gli spiriti malvagi che, scelleratamente, oseranno minacciarlo…”. Coloro che in vita furono Djare saranno capitani, ed i Morgat loro consiglieri nel “Consiglio celeste” siederanno al fianco di Korg.

La prima cosa che viene in mente, nell’osservare l’attività degli abitanti del sottosuolo, è un immenso formicaio. La frenesia e l’operosità dei Djaredin ricorda quella di una comunità di formiche, non solo per la forte somiglianza dell’ambiente, comune ad entrambi, ma anche e soprattutto per l’efficienza ed il rigore con cui ambedue svolgono i propri compiti, con rigide divisioni professionali e gerarchiche. Il lavoro è considerato fonte non solo di reddito ma anche di soddisfazione personale, e di rispetto da parte degli altri membri della comunità. Esso non è precluso a nessuno, e non sono operate distinzioni di sesso o d’età. E’ chiaro tuttavia che sarà considerato in maniera diversa chi ha secoli d’esperienza alle spalle, rispetto a chi abbia appena cominciato, per quanto sia desideroso di imparare. L’unica forma d’umiltà che questa cultura così forte, ma al contempo saggia, tollera è quella di chi si rimette totalmente agli insegnamenti dei maestri nelle svariate arti, lavorative, militari ed intellettuali. Gli artigiani lavorano incessantemente le materie prime che offre il sottosuolo, ed i mercati sono sempre in fermento, nonostante, come già è stato detto, si tratti esclusivamente di un mercato interno.

Le transazioni avvengono nella maggior parte dei casi con lo scambio di moneta (monete d’oro che gli djaredin chiamano in gergo “pezzi” o “scudi de re”), ma è altresì diffuso il baratto, come forma tradizionale, derivante probabilmente dai tremendi primi anni di confino in cui non esisteva alcuna forma di moneta. Le poche locande ed osterie sono ben frequentate, dato che minatori ed artigiani hanno l’abitudine di sostare per diversi giorni in prossimità delle vene di minerale, o nelle zone in cui sono stati chiamati per portare a termine qualche lavoro. In locanda si mangia e si beve, particolarmente apprezzata è una forte birra di radice, scura e schiumosa e dal gusto accentuatamente amaro. L’attrattiva principale rappresentata da questi luoghi, tuttavia, è il loro carattere di centri d’aggregazione, differenti dai luoghi di lavoro; è qui, infatti, che molti Djaredin trascorrono le ore di riposo, discorrendo con altri membri della comunità, giocando a dadi o a scacchi ed ascoltando i canti ed i racconti dei musici. Questi ultimi sono particolarmente rispettati ed apprezzati dalla gente del sottosuolo, sia per la capacità di rallegrare le serate, dopo una dura giornata di lavoro, sia per i racconti del passato, dei tempi in cui il regno di Djare viveva sotto la luce del sole ed era temuto e rispettato da tutti, anche dagli “smilzi infami”, e dai “poppanti senza spina dorsale”.

Col passare del tempo però, molti abitanti del sottosuolo presero a mirare a ben altri guadagni. Il commercio interno fruttava poco e le leggi della loro città iniziavano a essere troppo rigide.I Djaredin iniziarono a viaggiare per ogni dove, instaurando rapporti principalmente con il Regno di Helcaraxe,ma spingendosi ovunque per allestire nuovi traffici e rotte commerciali; venne infine a crearsi anche una sorte di rete di contrabbando, sia per le materie primae quali metalli e pietre preziose, sia relativa ai costrutti e agli artefatti tipicamente nanici, venduti letteralmente a peso d’oro, sia per il numero esiguo presente al di fuori dei domini dei Djaredin,sempre restii a condividere i propri strumenti e le proprie conoscenze, sia per il loro utilizzo e la loro straordinaria efficienza.

In questo contesto, associato al malcontento verso i vari governi succedutisi, incapaci di gestire la situazione, troppo immobili ed incompetenti di fronte alle nuove spinte sociali e alle radicali trasformazioni avvenute dalla riscoperta della superficie, ecco che molti Djaredin solitari, alcuni in gruppo, alcuni portandosi appresso l’intero nucleo familiari, presero la ferma e dura decisione di cambiare vita,altrove.

Silenziosamente, senza far trasparire i loro intenti, iniziarono a girovagare presso altri Regni,alcuni di essi intrapresero una vita all’esterno della loro città integrandosi con le altre civiltà. Altri, incuriositi dai racconti dei Cantori, abbandonarono il Regno cercando di inserirsi in altre città e vivere una vita alla luce del sole.Molti popoli non vedevano bene l’inserimento nella loro comunità degli abitanti del sottosuolo, ma col tempo alcuni impararono ad accettarne la loro presenza. Fu così che molti Diaredin iniziarono a vivere una vita ben diversa da quella vissuta dai loro predecessori, ora li puoi trovare parte integrante di altre civiltà, là dove la loro presenza è stata accettata.

I cantori, infatti, conoscono il passato, e lo tramandano con racconti diversi da quelli che si possono trovare nelle biblioteche del tempio, o da quelli redatti dalle sapienti menti dei saggi di Belzare. I racconti dei musici arrivano dritti al cuore, toccano l’animo, e riportano alla memoria i tempi e le storie dei padri e dei nonni. Nonostante il sottosuolo imponga delle limitazioni al termine stesso di cantori erranti, anche i bardi djaredin posso definirsi tali. E’ loro abitudine, infatti, quella di spostarsi lungo le gallerie del regno, in direzione dei presidi di frontiera, dei giacimenti minerari e delle “piantagioni”, spesso tuttavia vagano senza meta per i cunicoli conosciuti, in cerca di altri viaggiatori con cui scambiare notizie e vicende recenti, o della pura e semplice ispirazione. Istituzione importantissima nel regno di Djare è la famiglia. In reminescenza del vecchio sistema di divisione in clan, ormai sparito da millenni, il nucleo familiare centrale è più esteso rispetto al sistema umano o elfici. Il capofamiglia è di solito lo djaredin più anziano, alla sua morte il ruolo spetta al figlio maggiore, sempre che questi abbia raggiunto l’età adulta (110 anni), in mancanza di tale requisito è sua madre che ne ricopre il ruolo, fino a che il figlio non è in grado di succedere al padre. Nei primi secoli del confino, le famiglie avevano consolidato l’abitudine di vivere sotto lo stesso tetto, in seguito, con l’innalzarsi del tenore di vita e l’adattamento alle nuove condizioni imposte dal sottosuolo, questa pratica è lentamente caduta in disuso. Ora vivono nella stessa abitazione insieme ai genitori, i figli ed eventuali parenti non sposati, oppure gli anziani, mentre gli altri abitano in edifici circostanti. La tendenza quindi è quella di vivere in case separate, ma situate le une vicine alle altre. Tra membri appartenenti alla stessa famiglia, si è soliti chiamarsi con l’appellativo di “fratello” tra individui approssimativamente della stessa età, anche quando il vincolo sia di altro genere (mentre rivolti ad altri djaredin estranei, si usa spesso il termine “cugino”). Considerata l’età media (circa 2000 anni) gli djaredin si sposano relativamente giovani.

Il ciclo vitale iniziale, infatti, nei primi anni somiglia a quello degli umani (fino ai 25 anni), poi rallenta di colpo. La maturità sessuale si raggiunge a 70, e l’età adulta coincide col centodecimo anno di età. Ed è proprio in questo periodo che i membri della comunità tendono ad unirsi in matrimonio, tra gli 80 ed 120 anni, infatti, le djaredine hanno il loro apice di fertilità, ed è il momento migliore per assicurarsi una progenie, poiché col passare degli anni i periodi in cui le donne sono di nuovo pronte a rimanere incinte diventano sempre più rari, fino ad una completa sterilità attorno ai 1200 anni di età. Specificando quindi che si tratta di un popolo tradizionalmente monogamo, ecco spiegato il motivo per cui i matrimoni avvengono tra individui relativamente giovani come età. Nonostante ciò che potrebbe trasparire ad una prima analisi, la cultura djaredin non è affatto sessista. Le djaredine, godono di un rispetto pari a quello degli uomini, anch’esse possono ricoprire incarichi militari, e aspirare al sacerdozio (ma non di Korg). L’unico ruolo a loro precluso è quello di sovrano del regno, tuttavia esistono testimonianze storiche che una di esse abbia ricoperto la carica di Morgat. La vita nel regno di Djare, viene scandita da un calendario diverso da quello conosciuto nel regno di superficie. Da quando 4233 anni prima il popolo è stato deportato, la condizione del tempo è stata stravolta in maniera considerevole. I sacerdoti di Belzare si sono trovati di fronte alla condizione di non poter distinguere il susseguirsi del giorno e della notte, se non facendo sostare uno di loro nei pressi dello sbocco della caverna bloccata magicamente. Nel tempo a questo ruolo si sono sostituite delle sentinelle che hanno comunque mantenuto lo storico nome di “Tregret” (una traduzione in comune sarebbe: soleggiatori). Il calendario si divide nelle stesse giornate di quello attualmente usato nel regno umano (coincidenza non poco curiosa), ma con una profonda distinzione per la caratterizzazione dei giorni e dei dodici mesi. Questi sono: Cot, Zert, Drenat, Formeghet, Puste, Hug, Wqut, Ytor, Jnust, Morgot, Archon, Thorreg. Come si può notare, gli ultimi mesi dell’anno sono in onore della figura del saggio, del generale, e del Re. In particolare, il mese dedicato al Re, varia per ogni nuovo sovrano, con il cognome di quest’ultimo. In questo modo i Djaredin, possono ricordare, con maggiore precisione e rispetto, gli anni in cui un sovrano ha regnato. Un antico motto popolare recita: “quando ricorderai un evento, sarà il mese dopo Archon che ti ricorderà chi dovrai ringraziare per quel che ti è accaduto”. Anche in questo proverbio si può trovare l’arguta ambivalenza che i Djaredin amano dare alla loro saggezza. I giorni vengono calcolati, secondo la pratica logica Djaredin, in base ai semplici numeri senza nominare i giorni. Al momento nel quale scrivo siamo nel 4233 anno di Thorreg, giorno 12, di Puste. Un’ultima nozione, ma non per ordine di importanza, è quella sulle scarse risorse di ossigeno nel sottosuolo.

Il sistema vascolare e polmonare del popolo di Djare si è evoluto nelle migliaia d’anni di modo da poter sopportare una più alta concentrazione d’anidride carbonica, ed il corpo ha assunto un’incredibile resistenza allo stress derivato dalla fatica. Questo non significa che possano vivere nelle loro profondissime caverne senza bisogno d’aria. In aiuto di questo geniale popolo è venuta proprio la loro profonda cultura ingegneristica. Il corpo degli esploratori, una volta trovata una nuova zona abitabile, bada a chiamare i genieri. I genieri effettuano dei rilevamenti per capire la possibilità di creare dei dotti d’aria, scavando sul tetto delle caverne, fino a giungere alla superficie. Nessun Djare può fuggire dalla prigione magica dell’isola, ma l’aria può liberamente entrarvi o uscire. I genieri conoscono la maniera di picchettare e tenere puliti questi dotti per l’aria, nonché l’esatta inclinazione o dimensione che questi devono assumere per essere stabili e funzionali. Molto spesso alcuni dei capi genieri sono occupati a creare delle gallerie che spaziano tra un dotto e l’altro affinché possano crearsi dei circoli d’aria, capaci di portare via più velocemente il fumo generato dalle fucine o gli odori, nelle zone dove questi diverrebbero altrimenti irrespirabili per la stagnazione. Questo sistema è come un labirinto verso il cielo, che sfiora il miracolo inventivo. I genieri studiano per intere centinaia d’anni prima di agire sui dotti preesistenti o prima di creare nuovi “dotti portanti”. Uno dei pochi monumenti sotterranei è dedicato al crollo della “grotta del demone orbo”. Dove un gruppo di 12 genieri perse la vita durante il crollo che avrebbe dovuto aprire vie d’aria per la colonizzazione di una grotta strappata ad un enorme demone orbo, racchiuso nel sottosuolo per chissà quale ancestrale punizione. La grotta è attualmente sotto studio da parte dei genieri, poiché la sua ampiezza ragguardevole permetterebbe una decisa espansione della città sotterranea. A differenza dell’aria l’acqua non è affatto rara, ma di facile accesso. Questo sia per la presenza di fiumi sotterranei, che della possibilità per i genieri di scavare pozzi, per attingere a nuove risorse idriche.

L’unico pericolo è dato da quando le piogge si fanno abbondanti e quindi l’acqua filtra dalla roccia o dalle cavità aperte. L’ingegneria Djaredin ha attrezzato le stanze e le strade sotterranee di piccoli canali di scolo laterali, che, giovandosi di pavimentazioni a schiena d’asino, fanno drenare l’acqua nelle zone inferiori delle caverne ancora da scavare (per questo gli scavi proseguono sempre gradualmente verso il basso, oppure se si scava su pareti nuove, lo si fa livellando in leggera salita). Questo rende le zone di scavo inagibili per il periodo di tempo che la terra impiega a filtrare l’acqua piovana stagnatasi, ma lascia poi una superficie di scavo più molle per via delle friabilità che l’acqua ha concesso alla terra o alla pietra. Per terminare, è d’uopo qualche nota di costume. Gli uomini sono soliti portare lunghe e folte barbe, indossano anche quotidianamente le armature, sempre che, per esigenze di lavoro o altro, non preferiscano indossare abiti più leggeri, preferendo pesanti completi da lavoro di pelle, oppure vesti sobrie e resistenti. E’ loro abitudine inoltre portare il capo coperto da un robusto berretto di pelle. Le djaredinas invece indossano di solito abiti in tessuto grezzo, con pochi e scarsi ricami, soprattutto in prossimità delle aperture e delle cuciture, per aumentare la resistenza dei capi. Anch’esse portano il capo coperto con una cuffia o un fazzoletto di pelle e portano sempre gli stivali, come gli uomini, poiché nel sottosuolo si cammina quasi esclusivamente sulla roccia viva. La resistenza degli abiti è data anche dallo spessore della stoffa con la quale vengono confezionati, estremamente valida contro il clima piuttosto rigido del sottosuolo. Nelle parti inferiori del regno di Djare, si usa corredare questo abbigliamento di un mantello quasi avvolgente, utile oltre che per ripararsi dal freddo, anche per combattere l’umidità di alcune zone.

Una trattazione speciale merita la lingua di Djare. La cosa stupefacente è che l’istruzione nel regno è distribuita in maniera capillare. Tutti non solo sanno leggere e scrivere la loro lingua “particolare”, ma conoscono piuttosto bene la lingua comune. La spiegazione di questo è semplice quanto incredibile. Più di 4000 anni fa il Morgat impose, quale reggente per via della morte in battaglia del Re, che l’istruzione dei fanciulli comprendesse anche la lingua degli umani. Questo poiché una volta libero, il popolo potesse trovare un potenziale popolo amico o in ogni caso avere modo di capire piani di un potenziale nemico. Quando arriva all’età adulta quindi, un Djaredin parlerà correttamente due lingue. Nelle migliaia di anni passati in reclusione, la lingua si è però evoluta in maniera diversa nel mondo di superficie, mentre è restata rigidamente costante (studiata come una lingua morta) nel regno di Djare. E’ possibile lo stesso, con un’attenzione particolare, dialogare quasi correntemente con un Djaredin, specialmente se appartenente alla casta sacerdotale, o se di rango elevato. Come è comunque normale per una razza diversa e con forti radici nella propria collettività, il regno possiede una propria lingua ufficiale chiamata “Kyl”. Il Kyl è una lingua dura e gutturale, dove alcune parole esprimono concetti. Specialmente nel ramo lavorativo oppure militare e dove le parole dirette sono particolarmente corte, specialmente nella pronuncia. Alcuni esempi possono essere: Dga = difendere la posizione attuale / Grelle (pronunciato “Gle”) = Estrarre del minerale / Zi Do Grelle Merl (pronunciato “Z do gle mel”) = Oggi io ho estratto del minerale argento. La scrittura è un insieme di piccoli disegni più che di lettere.

Questi, infatti, come la loro lingua parlata, possono anche racchiudere un concetto e non soltanto una singola parola, oppure in maniera più riduttiva una lettera. Tramite questi simboli, sulle pareti delle grotte (non più scavabili o sfruttabili altrimenti) sono riportati fatti o momenti importanti della storia dei vari regni. Vista la scarsità dello spazio nel sottosuolo, infatti, i veri monumenti del regno sono queste pareti scritte per perdurare all’infinito. Nelle cavità formate dagli scalpellini per ricavare le lettere, vengono, infatti, colati a regola d’arte metalli molto preziosi o colori ricavati dalla polverizzazione di muschi e funghi. Queste pareti, sono l’unica forma d’arte dei Djaredin, e della loro creazione si occupa un gruppo ristretto di fabbri del regno. Allacciandoci a questo è giusto vedere anche il lato più affascinante della scrittura Kyl. I fabbri Djaredin ed alcuni cittadini, anche fuori della casta dei fabbri, danno a questa scrittura un vero significato spirituale.

In special modo vengono prodotte armi ed armature finemente cesellate da scritte, motti, e brani sacri o con simboli di famiglia. Alcuni fabbri, che estremizzano questa branca dell’arte, credono fermamente che una piccola parte della loro anima riesca ad essere impressa, tramite le rune, all’interno delle loro produzioni. E’ molto frequente che al termine della produzione di un particolare oggetto di alta manifattura, questo sia portato in un tempio dedicato al Dio Korg per essere benedetto dai suoi sacerdoti. Su questo ci sono anche delle dicerie molto suggestive, per le quali si afferma che alcuni fabbri portino le loro armature a benedire dai sacerdoti di Dare, e che questi chiedano alla divinità di piegare il destino affinché i possessori dell’oggetto possano essere in qualche modo aiutati in particolari frangenti. Non si ha notizia però di cosa i sacerdoti chiedano in cambio della benedizione o se la diceria corrisponda a verità.

In anni recenti, in seguito all’espandersi della civiltà nanica sulla ritrovata superficie di Ardania, sono aumentati gradualmente traffici, rapporti e commerci con le altre razze e civiltà.

Lentamente, in ogni Regno filtrano sempre più notizie relative agli usi e costumi dei Djaredin: gli abitanti di Ardania iniziano ad abituarsi al loro carattere, ai loro occhi spesso visto come scontroso e chiuso, rimanendo però sempre stupiti per le straordinarie doti e conoscenze di questo antico popolo,a mano a mano che i rapporti diventano più stretti.

Si inizia a favoleggiare dei grandi tesori contenuti a Kard Dorgast, si racconta di strani riti religiosi e particolari cerimoniali di corte, si scherza su strane brodaglie a base di funghi e muffe di cui i Nani dovrebbero cibarsi, si parla dei loro metalli e delle loro barbe…la civiltà Djaredin viene vista come qualcosa di esotico e misterioso, soprattutto a causa dell’isolamento, della riservatezza degli abitanti e della forte chiusura del Regno agli estranei.

Negli ultimi tempi, però, alcuni Djaredin hanno iniziato a trasferirsi in pianta stabile nelle città umane: dapprima sporadicamente, giovani scapestrati e desiderosi di avventure, reietti, insoffenti di vario tipo; poi i primi gruppi, interessati principalmente al guadagno derivato dal commercio con le altre razze, fino ad arrivare a piccoli gruppi familiari, affascinati dalla prospettiva di crearsi una nuova vita lontani dalla società fortemente gerarchicizzata della propria terra, rimanendo comunque sempre attenti a difendere la propria cultura ed i propri costumi.

Seppure si sia trattato del movimento di un numero esiguo di Djaredin, rappresenta comunque una forte elemento di novità, all’interno delle società ardane, ed un grosso problema per il Regno di Djare, poco aperto a questo genere di iniziative. Finchè si è iniziato insistemente a vociferare dell’esistenza,da qualche parte,di un villaggio o di un piccolo avamposto, creato da un gruppo di Djaredin abbastanza numeroso tale da mantenersi indipendente: secondo alcuni, è chiamato Nuran Kar…

“Lo vidi per la prima volta alla locanda di Kard. Non lo avevo mai incontrato prima, la lunga barba bianca ricadeva sino ai ginocchi; il suo strumento stonato emanava suoni mentre lo stava accordando. Borbottava tra se e nemmeno mi notò entrare. “Djarek” salutai deciso. Sollevò di scatto il viso, due occhi stanchi, ma limpidi fissarono i miei. Rispose al saluto e continuò a fissarmi come a cercare nel profondo dei ricordi se avesse già visto il mio viso altrove. Poi si riscosse, finì di accordare lo strumento e iniziò a cantare su una melodia semplice le sue memorie. Ascoltavo il suo canto, le sue parole portarono alla mia mente una storia sentita raccontare tempo fa da alcuni vecchi cugini. Era la storia di come il mondo esterno riscoprì Kard. Ma quello che mi colpì fu il seguito, non sapevo che un gruppo di cugini decise di seguire a ritroso il viaggio dell’avventuriero, partirono in gruppo di sei verso la scoperta del mondo esterno, di terre sconosciute, là dove il sole era fonte di vita e dove la roccia da scavare si protendeva verso l’azzurro del cielo. Di loro non si seppe più nulla sino ad oggi che sentivo narrare la loro storia da quel vecchio cantore. Dopo lungo girovagare, affrontando perigli e anche ostilità, essi avevano preso la via delle terre dei ghiacci, seguirono le montagne verso ovest sino a raggiungere una valle tranquilla e riparata dai gelidi venti di quelle terre. Cominciarono a lavorare i metalli che riuscivano a scavare e piano piano costruirono un piccolo villaggio a cui diedero il nome di Nuran-Kar. Seguendo in silenzio il suo canto venni a sapere che molti altri cugini avevano seguito la via per Nuran-Kar e lì vi si erano stabiliti, la curiosità si faceva strada in me, lo ascoltavo attento, mentre seduto ad un tavolo sorseggiavo il mio boccale di birra. Tornò infine a risollevare il viso, accennò a un pallido sorriso, ripose lo strumento e estrasse dal suo zaino una pergamena che posò sul tavolo. Si alzò. Salutò e uscì dalla locanda. Incuriosito posai il boccale di birra e mi diressi al tavolo, presa tra le mani la pergamena la srotolai e vi scoprii con mio grande stupore una mappa rudimentale che da Kard Dorgast insegnava la via per raggiungere Nuran-Kar. Riposi la preziosa mappa nel mio zaino, pagai l’oste della birra consumata e mi avviai verso la miniera in cerca di alcuni nani che ero sicuro di trovare.

Stranamente i miei cugini non erano in miniera quel giorno, ma la curiosità era tanta, ripresi in mano quella vecchia mappa, la rigirai tra le dita, la osservai attentamente e avvolto nei miei pensieri racimolai poche cose da portare con me: abiti pesanti, scorte di cibo, acqua e non per ultima una buona dose di birra. Accarezzai e sfamai il mio fedele Kirin e senza indugiare oltre partimmo per quel viaggio avventuroso verso le Terre del Nord. Appena messo piede nelle terre baciate dal sole dovetti soffermarmi qualche giorno per abituare gli occhi a quella nuova luce. Raggiunsi in qualche modo Eracles e li nella locanda di quel villaggio studiai a fondo la mappa e la via da seguire. Avrei dovuto proseguire verso nord ovest una volta raggiunto le terre fredde. All’alba del terzo giorno mi accinsi a partire sempre spinto dalla curiosità e dalla voglia di avventura. Raggiunsi abbastanza facilmente le Terre del Nord, mi guardai attorno, il riverbero del sole su quella distesa candida sferzava i miei occhi quasi abbagliandoli. Presi tra le mani il sestante e cercai con esso di orientarmi e dirigermi verso nord ovest, eh si, sembrava proprio che la mappa segnasse il cammino verso quella direzione. Non feci molta strada che i perigli cominciarono a rivelarsi. Esseri enormi e forti mi sbarrarono la via, non fu facile combatterli e aggirarli, ma alla fine vi riuscii. Le ferite col freddo dolevano in modo inimmaginabile, il corpo iniziava a irrigidirsi, mi curai in un luogo che sembrava abbastanza tranquillo e indossai i capi più pesanti che avevo con me. Ripresi il mio cammino, ma quelle terre non erano ostili solo per il freddo, altri esseri mai visti rallentarono il mio viaggio. Scese la sera, le ombre della notte calavano velocemente, trovai una piccola radura verde, sembrava tranquilla, accesi un fuoco con la legna raccolta dagli alberi e bivaccai per la notte. Avvolto nel mio sacco a pelo osservavo il cielo terso, non riuscii a dormire, i rumori di quei luoghi mi erano sconosciuti, i suoni delle voci di quegli animali che si aggiravano nell’oscurità mettevano i brividi. Sempre all’erta e vigile trascorsi quella notte sino alle prime luci dell’alba. Raccolsi le mie poche cose, avvolsi il sacco a pelo, consultai ancora una volta la mappa e mi rimisi in cammino. Ormai avrei dovuto essere a ridosso delle montagne che mi avrebbero guidato sino a quel villaggio, la frenesia di raggiungerlo mi spinse ad accellerare il cammino. E all’improvviso ecco la montagna, la vedevo innanzi a me svettare sopra le cime degli alberi, presi a costeggiarla proseguendo abbastanza velocemente, ma sempre all’erta. Avevo imparato ad avvertire i pericoli, cercavo di aggirarli in qualche modo, facendo si che il mio viaggio scorresse più tranquillo e veloce possibile.

Consultai ancora la pergamena, il mio sestante, non dovevo essere ormai molto lontano. Rallentai un pochino, il Kirin era infreddolito e stanco, quel suolo gelato gli aveva gonfiato le zampe e alcune vesciche erano scoppiate lasciando sulla sua pelle delle piaghe. Continuai a piedi per alleggerirlo del mio peso e lo condussi con me al mio seguito. Non feci molta strada, superato un piccolo sperone di roccia ecco apparirmi davanti un’oasi verde, in lontananza cominciavo a intravedere alcune baracche, poi mentre mi avvicinavo alcuni tetti apparivano dalle fronde degli alberi mossi dal vento gelido. Emozionato raggiunsi il villaggio, trovai uno stalliere e affidai alle sue cure il mio Kirin, mi guardava incuriosito e sembrava contento di vedermi. “Una barba nuova finalmente” mormorò sorridendo dandomi una pacca sulla spalla. Ormai il sole era alto nel cielo e i suoi raggi mi riscaldavano, chiesi informazioni allo stalliere e lui m indicò una piccola locanda, ma mi informò che non vi avrei trovato alcuno, i miei nuovi cugini erano tutti o in miniera o alle prese con lo scavo di un cunicolo che avrebbe portato non capii bene dove. Mi feci insegnare la strada per la miniera e mentre lì mi dirigevo ammiravo quel piccolo villaggio che la musica e le parole di un cantore alla locanda di Kard mi avevano insegnato la via per raggiungerlo.”

“Magia?” chiese il vecchio nano inarcando un sopracciglio.
“Puah! Credi che i nani abbiano bisogno della magia!? Se così fosse la Triade ce ne avrebbe fatto dono!” sbuffò il nano.
“Ma non è così! Il punto è semplice gambelunghe: i nani non hanno alcun bisogna della magia!”

Da sempre i popoli di Ardania si domandano come mai i nani siano gli unici esseri viventi a non fare uso della magia. Perfino orchi, goblin e altre creature orripilanti sono in grado di manipolarla. Eppure i nani no.
I nani nutrono una profonda e radicale avversione nei confronti della magia. Avversione diventata odio con radici storiche che risalgono ai tempi della Battaglia Sanguinosa combattuta contro la stirpe elfica: battaglia che il popolo di Djare perse a causa della magia, che venne usata anche per esiliarli e rinchiuderli nella profondità della terra.
Nessun altra razza sarebbe sopravvissuta in un ambiente simile.
Magia? No…semplicemente tenacia, determinazione, il rifiuto ad arrendersi e l’ingegno.
Forse soprattutto quest’ultimo è la forma di magia che i nani sono in grado di praticare. Ma è qualcosa di reale, tangibile e concreto, il frutto di una profonda conoscenza ereditata dagli antenati e una ricchezza condivisa da tutti e per il bene del proprio popolo.
Caratterizzati da un innato e profondo pragmatismo, i nani non capiscono la magia: la vedono come qualcosa di astratto e irreale; una forma di potere e ricchezza certo ma non condivisa e accessibile a tutti e raramente al servizio del bene comune.
La magia è pericolosa e selvaggia e i nani credono che non tutti gli esseri mortali siano in grado di praticarla senza che la propria anima venga corrotta.

Confronto Magia e Tecnologia

I nani sono la civiltà con il più elevato e avanzato sviluppo tecnologico: laddove in molte società è la magia a ricoprire un ruolo importante, tra gli djaredin è la tecnologia a farlo.
Se i maghi ricorrono alla magia per spostarsi velocemente da un luogo ad un altro, passeggiando per Kard Dorgast si può ammirare l’intricato sistema di binari: binari su cui carrelli carichi di metallo e altre risorse, viaggiano rapidamente raggiungendo ogni punto strategico della città sotterranea.
I maghi sono in grado di manipolare gli elementi della natura: acqua, aria, fuoco e terra. Altrettanto fanno inventori e ingegneri nanici: complessi sistemi di pompaggio dell’acqua permettono di portare questa preziosa risorsa in tutto il Regno; mastodontici condotti di ventilazione, che partendo dalle profondità del sottosuolo raggiungono gli sbocchi in superficie, controllano il flusso dell’aria; esperti ed abili artigiani conoscono ogni segreto del fuoco, lo manipolano per i propri lavori e lo sfruttano per creare armi micidiali; infine la terra: esiste forse un popolo più legato ad essa dei nani e che ne conosca e apprezzi segreti e doni?
Un incantatore arcano può convocare a sé creature e servitori per i suoi fini. I nani sono in grado di costruire guerrieri di metallo e se non bastasse, data la loro profonda fede, richiamare lo spirito di un antenato.
La magia insomma è stata completamente rimpiazzata dalla tecnologia: anche per questo i nani ne mettono in dubbio la sua reale utilità.
Una civiltà basata solo ed esclusivamente sulla profonda fede e sviluppo razionale, sulla conoscenza attraverso scoperte tangibili e patrimonio per i discendenti, ha sicuramente un futuro più certo e consolidato rispetto invece ad una civiltà che si basa sull’evoluzione grazie allo sfruttamento di poteri derivanti dalla magia.

Origini della Magia secondo i Nani

È opinione diffusa tra i nani, che la magia sia stata creata dai demoni o forse rubata agli dei stessi per i loro scopi caotici.
La magia è una forma di potere difficile da controllare e non tutti gli esseri mortali sono in grado di farlo e soprattutto di non rimanerne corrotti. Per questo secondo i nani gli Dei mai avrebbero permesso che finisse nelle loro mani: la magia distorce lo stato naturale delle cose, del mondo creato e quindi minaccia la perfezione degli Dei stessi.
I nani quindi sostengono che i demoni abbiano insegnato la magia agli elfi: l’uso della magia avrebbe portato scompiglio e caos su Ardania e queste immonde creature avrebbero così ottenuto ciò per cui sono state create.
In seguito la stirpe elfica avrebbe insegnato a sua volta la magia agli umani: questo sarebbe avvenuto al tempo della Battaglia Sanguinosa. Gli elfi, accortisi che gli umani, al contrario dei nani, avevano una certa propensione nei confronti della magia e promisero che li avrebbero istruiti in cambio della loro neutralità durante la guerra imminente. Gli umani, avidi e assetati di potere, accettarono. Così gli elfi allontanarono gli umani dai nani e li resero in un certo senso più simili a loro.
Dal punto di vista dei nani, gli umani muoiono troppo presto per rendersi conto dei reali effetti che la magia produce e soprattutto non hanno il tempo necessario per conoscerla a fondo. Gli elfi invece, hanno tutto il tempo e la saggezza per imparare a fare uso della magia senza creare danni irreparabili, ma nessun nano lo ammetterebbe mai.
Un mago di per sé non è malvagio e non è detto che venga corrotto dal potere. Può usare la magia a fin di bene, ma ogni volta che ricorre ad essa indebolisce la realtà delle cose, porta caos nell’ordine, rende tutto meno perfetto. In sostanza a lungo andare fa il gioco dei demoni, che non desiderano altro.

 

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Storia e Razze