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By Egebeus
#57256
Le origini del Potere

Quando vidi per l’ultima volta Jal’Hassid Bakkrim la pazzia lo aveva divorato e risputato in quel buco scavato nel terreno. Quella fascina d’ossa tremolante era il mausoleo di una mente delirante ed ormai sconnessa. Il vecchio si muoveva incespicando e proseguendo penosamente strisciando sul fondo polveroso. Si muoveva senza un senso, spesso girando sul posto in pochi metri e rimbalzando lungo le pareti della buca come un animale braccato.
Mi fu difficile discernere quanto di vero si celava tra le pieghe delle sue folli parole.
Dallo stato delle sue mani gli credetti quando affermò di aver scavato lui stesso quella spelonca. Così come gli credetti, anche se con sgomento, quando asserì di aver guardato il sole fino a perdere completamente la vista. Quasi sogghignando aveva ripetuto la sua macabra cantilena: “Lo guardai fino a non vederlo più”.
Non so perché stetti laggiù con quell’uomo che ormai non distingueva più le sue feci dai tozzi di pane sparsi sul pavimento. Probabilmente per il ricordo dell’uomo che era o per il richiamo che la miseria esercitava su di me.
Lo avevo trovato poco distante dal luogo in cui lo avevo conosciuto anni addietro e dove viveva, ed egli sembrava quasi avermi riconosciuto. Forse fu questa la vera ragione per cui decisi di rimanere o forse ero semplicemente troppo codardo per voltargli le spalle e lasciarlo ai suoi demoni.
In quei giorni feci quindi di tutto per occuparmi di lui come meglio potevo, caracollando su quei radi filamenti di senno che sovrastavano quell’abisso di oscura follia che ormai lo aveva assorbito completamente. Ma non fu facile.
Jal’Hassid blaterava continuamente di un testo con cui era entrato in contatto. Compresi si trattava di una serie di dogmi che egli aveva preso alla lettera e che avevano sostituito con prepotenza la ragione, condannandolo a quella situazione miserabile.
Aveva smesso di portare qualsiasi vestito, girando completamente nudo nel gelo della notte desertica così come nella fornace del pomeriggio. Dormiva a contatto con la terra, rifiutando di interporre persino una stuoia tra il suo corpo e la terra. Si concedeva unicamente tre mani unite d’acqua ogni giorno, di cui la metà veniva assorbita dalle labbra secche come cachi d’inverno. A nutrirlo poche bacche di ginepro raccolte lì attorno e del pane che con ogni probabilità gli aveva lasciato qualche carovaniere di passaggio.
Ormai cieco e privo di forze, spesso preferiva strisciare anche quando le gambe scarne parevano farcela nello sforzo di reggerlo in piedi.
Negli interminabili giorni che vennero cercai invano di interrogarlo sul testo che citava continuamente, ma egli si limitava a farvi riferimento quando recitava quegli sconclusionati versi, omettendo qualsiasi informazione utile a capirne di più.
Rimasi in quella buca per dieci giorni, cercando di accompagnarlo in quello che ogni giorno pareva l’ultimo per quel povero diavolo.
Infine, quando ormai ero vicino a trovare il coraggio per porre io stesso fine a quella miseria di vita, Jal’Hassid sembrò rinvenire.
Una luce brillante spazzò via l’espressione cerulea che lo segnava. Come scosso da un incubo si tirò su a sedere, e nonostante le sue palpebre fossero bruciate in maniera orrenda posso giurare di aver sentito il suo sguardo inchiodarmi sul fondo di quella buca.
In quel lontano baluginio di sanità mentale strisciò verso una pila di secchi accatastati e ne emerse stringendo un libriccino ormai logoro.
Non appena me lo porse guardandomi in cerca di approvazione con l’espressione del più fedele e bastonato dei cani, mi fu chiara la portata e l’implicazione di quanto stringevo con mani tremanti.
La ruvida copertina raffigurava un paesaggio brullo. Sullo sfondo un uomo torreggiava su un altro. I palmi dell’uomo in piedi tesi rivolti verso l’uomo che giaceva in ginocchio. Dalla bocca spalancata di quest’ultimo fuoriuscivano spesse corde che terminavano in forme serpentine.
L’espressione di puro terrore mentre soffocava alla ricerca disperata di una boccata d’aria.
Poco sopra l’immagine disegnata con incredibile minuzia, luccicavano le lettere del titolo: L’ordine delle Sabbie.
Mi dimenticai quasi di Jal’Hassid mentre aprivo a casaccio il libriccino e ne sfogliavo in maniera frenetica e disordinata le pagine consumate dal tempo.
Quando mi destai da quell’euforia lo trovai rannicchiato, le ginocchia al petto, aveva smesso di delirare ed il respiro era ormai un rantolo. Rimasi con lui fino al calar della sera quando lo sentii esalare il suo ultimo respiro per poi afflosciarsi contro la nuda terra.
Prima di rimettermi in marcia richiusi la spelonca con della sabbia delegando il suo corpo al tanto agognato abbraccio della nuda terra.
Ormai sfinito mi incamminai lungo il deserto, stringendo quel tesoro tanto da sentire le dita indolenzirsi.
I miei pensieri erano per Jal’Hassid e per quell’incredibile tesoro di cui era entrato in possesso.

A quasi cinquant’anni da quel giorno, oggi ho la consapevolezza di dove mi ha portato l’incontro con Jal’Hassid e quel primo scritto.
Ho speso tutta la mia vita attorno alla ricerca di quell’antico potere e di chi era in grado di manipolarlo. Ne ho snocciolato ogni sfumatura e tra le pieghe di quel mosaico ho scoperto segreti che sarebbero semplicemente troppo pesanti per la maggior parte degli studiosi, e forse persino per me ora sono un peso troppo grave.
Tuttavia sento di dover ancor fare un ultimo passo prima che sia il mio turno all’appuntamento con l’inevitabile. In questi scritti riferirò di quanto appreso in questi anni affinché si possa comprendere la vera origine del potere e sia chiaro che quanto oggi definiamo tale non sia che un minimo retaggio, l'ombra di una flebile coda di un passato eternamente glorioso.

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