- Mon Dec 21, 2020 9:10 pm
#31996
- Sùrion, ti brucerai! -
"Nay, come potrei... Quella fra le mie mani non è che una lucciola.
Nay, una candela, forse questo, forse... Una scintilla, ay, tinwe”.
Tinwe.
Tenevo le mani a coppa, come in preghiera, rivolte verso il cielo stellato, per mostrare alle Belanil quella scintilla che cullavo e accudivo.
Sapevo che gli apparteneva, non era più mia da quasi un secolo, ora il suo posto era nella trapunta nera della notte.
- Sùrion non fare lo sciocco, dico sul serio! Ti brucerai e poi sarò costretta a rubare le foglie di lisander dalle scorte di mia madre, solo per rimediare alla tua cocciutaggine! -
- Nay, io... Se la lascio cadere si spegnerà -. Protestai, senza distogliere lo sguardo dalla scintilla, sospesa fra le mie mani.
- Ti prendi gioco di me? Non ti avevo chiesto io di custodirlo, non ti avevo chiesto di non lasciarlo morire? Tu questa scelta l'hai già presa, l'hai già gettato via, ed ora che ti chiedo di farlo ancora, me lo neghi?! -
Alzai lo sguardo.
La radura fuori Rotiniel era bagnata di luce azzurra, come quella notte, e le fronde del nostro albero ondeggiavano alla placida brezza portata dal mare.
Alle sue radici, tu, Tinwe, mi guardavi come quel giorno, con una supplica agrodolce dipinta sul viso.
Un'ampia macchia rossa impregnò il tuo vestito all’altezza del cuore, dove avevi affondato il pugnale.
- Ti prego, Mela en’coiamin... Lascialo -.
Abbassai di nuovo lo sguardo: Fra le mie mani non c'era più una scintilla, ma il tuo cuore, avvolto da lingue di fuoco, che lentamente stavano aggredendo anche le mie carni.
Strinsi i denti, sopportando il dolore, abbracciandolo.
- Soffrirai, proverai tutta la sofferenza che la morte mi ha risparmiato -.
Ti allontanasti, senza voltarti, verso il tronco del nostro albero, finché la tua sagoma non svanì nelle tenebre.
- Nay, non andare, non ancora, io... -
Feci un passo, ma le mie gambe cedettero, costringendomi in ginocchio, il tuo cuore quasi scivolò dalle mie dita.
- Non farlo cadere... Non lo sprecare -.
Mi ammonì una nuova voce.
Una mano gelida e pallida come Nut, mi carezzò il viso.
- Atalante, mio dolce Atalante... Hai guadagnato un nome struggente. Fu quella notte che ho pensato lo meritassi -.
Disse la calaquendi albina, facendo un ampio gesto attorno a sé.
Le sue vesti di seta diafana ondeggiavano al chiarore notturno, come la luce s'increspa sull'acqua.
I suoi occhi d'ametista penetrarono i miei.
- Ma "La Rovina", è il preludio alla rinascita, non è così? E me lo hai dimostrato, perché è anche grazie a te che ora lei cresce... -
Così dicendo scostò il drappo della sua ampia manica, rivelando la sagoma di una bambina, una giovanissima Quenya dalla pelle ed i capelli del più puro argento.
Occhi neri e profondi mi scrutarono ammiccanti, tutti ed otto attenti ai miei movimenti, e al cuore bruciante che reggevo fra le mani.
- Non è la carne, figlio mio... -
Mi disse con dolcezza la calaquendi, carezzandomi ancora il viso.
La bambina si avvicinò, le offrii il cuore e lei lo prese, addentandolo e strappandone un ampio morso.
Sorrisi, guardandola masticare con aria soddisfatta.
- Non della carne Ella si nutre -.
Mi svegliai lentamente, come un germoglio dal seme.
Vidi solo il candore della tela che mi copriva e mi sentii in colpa a strapparla per rialzarmi, rovinando il meticoloso lavoro dei molti piccoli lianter che sciamavano attorno a me.
Aprii a fatica la bocca, staccando dolorosamente le labbra secche e incollate.
Presi un profondo respiro, gustando l’aria umida e gelida della grotta.
A giudicare dalla sete e dalla fame che mi artigliarono il ventre e la gola… Tre giorni, forse qualche ora in più.
Stavo mettendo a dura prova il mio corpo, ma la mia sorveglianza era importante, necessaria. Una bugia forse, aveva davvero bisogno di un altro guardiano, o era la mia egoistica apprensione a farmi trascorrere sempre più tempo in sua presenza?
Di due dei tre minotauri che avevo portato, non avanzavano che le ossa, sparpagliate alla rinfusa lungo tutta l’ampiezza della caverna.
Il cadavere del terzo, parzialmente scarnificato, si agitava emettendo viscidi gorgoglii, finché con un sonoro schiocco lo sterno fu spezzato dall’interno, gettando schegge d’ossa e brandelli di carne in una macabra fontana.
Eilistraee ne emerse coperta di viscere e sangue, tenendo stretto fra le zanne il suo trofeo: Il cuore nero e maleodorante della creatura.
Sorrisi divertito a quella vista, notando la sua espressione soddisfatta, ai miei occhi non dissimile da quella di un bambino che ha appena ricevuto un frutto caramellato, come quelli che ad Ilkarin si regala ai più giovani, giunta la stagione fredda.
“ Non della carne Ella si nutre “
Mi tornò alla mente quella frase… Ma era stata una visione, solo un sogno, oppure la mia mente mi offriva un’intuizione, nel suo solito modo contorto?
- Qualunque sia la risposta, yeldé, la troverò per te -.
"Nay, come potrei... Quella fra le mie mani non è che una lucciola.
Nay, una candela, forse questo, forse... Una scintilla, ay, tinwe”.
Tinwe.
Tenevo le mani a coppa, come in preghiera, rivolte verso il cielo stellato, per mostrare alle Belanil quella scintilla che cullavo e accudivo.
Sapevo che gli apparteneva, non era più mia da quasi un secolo, ora il suo posto era nella trapunta nera della notte.
- Sùrion non fare lo sciocco, dico sul serio! Ti brucerai e poi sarò costretta a rubare le foglie di lisander dalle scorte di mia madre, solo per rimediare alla tua cocciutaggine! -
- Nay, io... Se la lascio cadere si spegnerà -. Protestai, senza distogliere lo sguardo dalla scintilla, sospesa fra le mie mani.
- Ti prendi gioco di me? Non ti avevo chiesto io di custodirlo, non ti avevo chiesto di non lasciarlo morire? Tu questa scelta l'hai già presa, l'hai già gettato via, ed ora che ti chiedo di farlo ancora, me lo neghi?! -
Alzai lo sguardo.
La radura fuori Rotiniel era bagnata di luce azzurra, come quella notte, e le fronde del nostro albero ondeggiavano alla placida brezza portata dal mare.
Alle sue radici, tu, Tinwe, mi guardavi come quel giorno, con una supplica agrodolce dipinta sul viso.
Un'ampia macchia rossa impregnò il tuo vestito all’altezza del cuore, dove avevi affondato il pugnale.
- Ti prego, Mela en’coiamin... Lascialo -.
Abbassai di nuovo lo sguardo: Fra le mie mani non c'era più una scintilla, ma il tuo cuore, avvolto da lingue di fuoco, che lentamente stavano aggredendo anche le mie carni.
Strinsi i denti, sopportando il dolore, abbracciandolo.
- Soffrirai, proverai tutta la sofferenza che la morte mi ha risparmiato -.
Ti allontanasti, senza voltarti, verso il tronco del nostro albero, finché la tua sagoma non svanì nelle tenebre.
- Nay, non andare, non ancora, io... -
Feci un passo, ma le mie gambe cedettero, costringendomi in ginocchio, il tuo cuore quasi scivolò dalle mie dita.
- Non farlo cadere... Non lo sprecare -.
Mi ammonì una nuova voce.
Una mano gelida e pallida come Nut, mi carezzò il viso.
- Atalante, mio dolce Atalante... Hai guadagnato un nome struggente. Fu quella notte che ho pensato lo meritassi -.
Disse la calaquendi albina, facendo un ampio gesto attorno a sé.
Le sue vesti di seta diafana ondeggiavano al chiarore notturno, come la luce s'increspa sull'acqua.
I suoi occhi d'ametista penetrarono i miei.
- Ma "La Rovina", è il preludio alla rinascita, non è così? E me lo hai dimostrato, perché è anche grazie a te che ora lei cresce... -
Così dicendo scostò il drappo della sua ampia manica, rivelando la sagoma di una bambina, una giovanissima Quenya dalla pelle ed i capelli del più puro argento.
Occhi neri e profondi mi scrutarono ammiccanti, tutti ed otto attenti ai miei movimenti, e al cuore bruciante che reggevo fra le mani.
- Non è la carne, figlio mio... -
Mi disse con dolcezza la calaquendi, carezzandomi ancora il viso.
La bambina si avvicinò, le offrii il cuore e lei lo prese, addentandolo e strappandone un ampio morso.
Sorrisi, guardandola masticare con aria soddisfatta.
- Non della carne Ella si nutre -.
Mi svegliai lentamente, come un germoglio dal seme.
Vidi solo il candore della tela che mi copriva e mi sentii in colpa a strapparla per rialzarmi, rovinando il meticoloso lavoro dei molti piccoli lianter che sciamavano attorno a me.
Aprii a fatica la bocca, staccando dolorosamente le labbra secche e incollate.
Presi un profondo respiro, gustando l’aria umida e gelida della grotta.
A giudicare dalla sete e dalla fame che mi artigliarono il ventre e la gola… Tre giorni, forse qualche ora in più.
Stavo mettendo a dura prova il mio corpo, ma la mia sorveglianza era importante, necessaria. Una bugia forse, aveva davvero bisogno di un altro guardiano, o era la mia egoistica apprensione a farmi trascorrere sempre più tempo in sua presenza?
Di due dei tre minotauri che avevo portato, non avanzavano che le ossa, sparpagliate alla rinfusa lungo tutta l’ampiezza della caverna.
Il cadavere del terzo, parzialmente scarnificato, si agitava emettendo viscidi gorgoglii, finché con un sonoro schiocco lo sterno fu spezzato dall’interno, gettando schegge d’ossa e brandelli di carne in una macabra fontana.
Eilistraee ne emerse coperta di viscere e sangue, tenendo stretto fra le zanne il suo trofeo: Il cuore nero e maleodorante della creatura.
Sorrisi divertito a quella vista, notando la sua espressione soddisfatta, ai miei occhi non dissimile da quella di un bambino che ha appena ricevuto un frutto caramellato, come quelli che ad Ilkarin si regala ai più giovani, giunta la stagione fredda.
“ Non della carne Ella si nutre “
Mi tornò alla mente quella frase… Ma era stata una visione, solo un sogno, oppure la mia mente mi offriva un’intuizione, nel suo solito modo contorto?
- Qualunque sia la risposta, yeldé, la troverò per te -.